Credo che sia un bene che dei Mondiali di calcio di Qatar2022 si parli non solo in termini calcistici. Anzi, se non fosse per qualche risultato a sorpresa, come le sconfitte di Argentina e Germania, si sarebbe già parlato più di battaglie civili che di calcio. Da un lato, è vero che lo sport dovrebbe sempre essere super partes, ma è altrettanto vero che il mondo di oggi non è fatto a compartimenti stagni, per cui tutto quello che accade nella società si riverbera anche nello sport, che della società del XXI Secolo è uno degli aspetti più visibili.
A parte le legittime polemiche iniziali su come vennero assegnati i Mondiali al Qatar (ma accadde 10 anni fa: ci siamo svegliati solo ora?) e sulle condizioni disumane di lavoro alle quali sono stati costretti centinaia di migliaia di lavoratori immigrati per la costruzione degli stadi, a Doha e dintorni (6.500 vittime, nei cantieri dei vari impianti), sarà sicuramente da ricordare – e da ammirare – la coraggiosa scelta dei giocatori dell’Iran di non cantare il loro inno nazionale. Chissà quanto sarà costato loro, orgogliosi come sono di rappresentare il loro Paese, ma dare un ulteriore segnale forte era assolutamente necessario, perchè in Patria ci sono donne e uomini che stanno lottando (e morendo) per cambiare l’Iran, per porre finire all’assurdo regime islamico, per poter finalmente respirare il vento della libertà. Sono stati coraggiosi, i giocatori iraniani, perchè non sanno quello che potrà accadere al loro ritorno in Iran…
Meno eclatante, ma ugualmente significativo, il gesto dei giocatori della Mannschaft, la Nazionale di calcio della Germania: tutti e undici, nella fotografia della partita inaugurale del loro girone, hanno messo la mano davanti alla bocca, in segno di protesta – è stato poi fatto sapere – per la mancanza dei diritti per la comunità LGBT+ in Qatar e contro la decisione della FIFA di vietare l’uso della fascia “arcobaleno” da capitano, minacciando sanzioni alle Federazioni che l’avrebbero usata. Un clamoroso autogol di credibilità da parte della FIFA dell’avvocato italo-svizzero Gianni Infantino…
Eppure, in molti, anche tra gli addetti ai lavori, hanno criticato la scelta dei giocatori tedeschi. E’ il caso di Eden Hazard, evidentemente un calciatore belga senza troppi pensieri (in testa) e problemi, che ha detto che i tedeschi – poi sconfitti dal Giappone – “avrebbero fatto meglio a non fare quel gesto e a vincere la partita. Siamo qui per giocare a calcio, non per lanciare messaggi politici”. Ma non è politica, caro Hazard: è la vita, è la società, è il mondo che cambia. E lui, forse, non se n’è accorto, oppure, peggio, se ne frega.
C’è stato, infine, anche l’ormai tradizionale inginocchiamento dei calciatori della Nazionale inglese, che – da oltre due anni – rendono omaggio al movimento “Black Lives Matter”, deflagrato dopo il caso della morte di George Floyd, “soffocato” da un poliziotto (bianco) americano a Minneapolis nel maggio 2020.
Gli sportivi, da sempre – pensiamo al podio dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico 1968, con Tommie Smith e John Carlos e il loro pugno chiuso alzato – hanno sempre rappresentato un modello di riferimento per la loro generazione. E’ giusto che lo sia anche il calcio di oggi, in modo da far capire che i calciatori hanno anche un cuore e non solo un conto corrente…

Città del Messico, 1968. David Norman, Tommie Smith, John Carlos.
Città del Messico, 1968. Peter Norman, Tommie Smith, John Carlos.