Napoli è un mondo a sé, un crocevia di storie, contraddizioni e sfumature infinite. Qui, la teatralità non è un artificio ma una condizione naturale dell’essere. Si dice spesso che Napoli si vende da sola, che non ha bisogno di pubblicità. Ed è vero, perché ha una storia così ricca e multiforme che non occorre raccontarla due volte per innamorarsene. Basta una passeggiata tra le sue vie per essere travolti da un turbinio di voci, colori, odori.
Napoli è una città che ti seduce con la sua bellezza sfacciata, con la sua vitalità strabordante. Ti avvolge e ti porta con sé in un viaggio attraverso vicoli freschi, dove ogni passo è una scoperta, fino alle piazze assolate, animate da un’umanità vivace e rumorosa.
Napoli è fatta di colori intensi, come quelli dei panni stesi al vento, che sembrano voler raccontare le storie di chi li abita; ti invita a fermare, a respirare il profumo del caffè, a immergersi senza riserve nel ritmo di una vita che non conosce la fretta.
Napoli, mentre ti avvolge e ti conquista, ti sfida e ti chiede di comprendere la sua anima profonda, quella che sa ridere del dolore e cantare persino quando il destino sembra avverso.
È una città che non teme gli opposti, che sa mescolare sacro e profano, vita e morte, con la stessa naturalezza con cui si passa dalla luce abbagliante del lungomare al buio silenzioso di una chiesa barocca.
Napoli è come una forza della natura, indomabile e meravigliosa. È una città che si rinnova ogni giorno, che sa prendersi gioco delle sue stesse ombre e che cambia volto in continuazione, come un maestro del palcoscenico. Al centro di questo teatro senza fine c’è una figura che incarna l’anima stessa di Napoli: Pulcinella. Un personaggio ambiguo, sfuggente che racchiude in sé tutte le contraddizioni di Napoli.
Le sue origini sono incerte: alcuni lo collegano alle atellane, le antiche farse romane, altri lo vedono come erede del mimo bianco del teatro romano. Qualunque sia la sua origine, Pulcinella ha attraversato i secoli, radicandosi nella cultura napoletana, diventando parte della sua identità, proprio come i vicoli, il Vesuvio e il mare. Pulcinella ha attraversato le epoche,e affascinato artisti di ogni tempo: dai dipinti dei Tiepolo alle opere di Picasso, dalle riflessioni di Croce fino alle composizioni di Stravinskij.

Oggi, quest’anima antica e senza tempo vive una nuova incarnazione nell’opera di Gaetano Pesce, Tu si ‘na cosa grande. In Piazza Municipio, di fronte all’imponente Maschio Angioino, simbolo di potere e autorità, questa installazione sembra quasi una sfida, una beffa voluta. In teoria, l’istallazione dovrebbe celebrare Pulcinella, ma la presenza, a tratti disturbante, non offre la rassicurante immagine dell’antica maschera napoletana.

Al primo sguardo, la scultura disorienta. I passanti, fermi davanti a quella figura imponente, non riconoscono subito Pulcinella, vedono solo una sagoma quasi ingombrante. C’è chi accenna un sorriso, chi scuote la testa con un nostalgico “Eh, una volta l’arte era arte!” E come sempre, non mancano i giudizi espressi a voce alta: “Bruttina”, “Bruttina forte!”. Eppure, questo Pulcinella senza volto e senza una bellezza convenzionale sembra rispondere ironicamente, come se ridacchiasse sotto baffi immaginari: “Sì, sono bruttino… e allora?”. Perché, in fondo, non gli importa. Non è una scultura da ammirare in silenzio, né un’opera perfetta. Qui non c’è nulla di rassicurante, l’intento è un altro: sfidare lo sguardo, provocare un pensiero, suscitare una reazione.
L’opera è volutamente sgraziata, quasi una parodia dell’idea di monumento. Il personaggio di Pulcinella, non è mai stato bello: è storto, grottesco, un po’ genio e un po’ sciocco. Come lui, questa istallazione sembra dirci: “Cercavi qualcosa di classico? Hai sbagliato strada.” Napoli sembra caos e disordine, e quando credi di averla capita, ti confonde. Come questo Pulcinella senza testa, provocatorio, incomprensibile solo in apparenza, ma carico di significato se osservato con attenzione.
Guardato da una prospettiva, quella dell’imponente Palazzo San Giacomo, l’opera evoca senza mezzi termini un richiamo fallico, potente e ambiguo, un simbolo che sfida gli sguardi con ironia sorniona, quasi prendendo in giro chi passa. L’istallazione, gonfia di un’aura provocatoria, sembra suggerire una sensualità caricaturale che strizza l’occhio al folklore napoletano, a quella viscerale passionalità che è parte integrante della città stessa.
Il fallo gigante, è un elemento impossibile da ignorare! Le reazioni si moltiplicano: c’è chi ride, chi sussurra battute maliziose. Quella che può sembrare una provocazione facile, direi di vederla come un omaggio a una tradizione antica, come se l’artista ci dicesse: “Tranquilli, non è solo un simbolo fallico, è scaramanzia in formato extra large”. È una provocazione, certo, ma per nulla banale! Mi piace pensare che l’opera di Gaetano Pesce, pur essendo provocatoria, possegga una profondità che va oltre la semplice provocazione. La collego all’antica falloforia dionisiaca, un rituale che celebrava la fertilità e l’ironia, qui reinterpretato per una città come Napoli, capace di fondere passato e presente in un gioco continuo. Come Dioniso nelle processioni antiche, l’opera sembra suggerire di vivere e celebrare Napoli senza prendersi troppo sul serio, senza rigidità né giudizi.
Tuttavia, basta spostarsi di pochi passi, girando le spalle al porto e guardandola frontalmente, per scorgere tutt’altra visione: la forma cambia, gli angoli si fanno più chiari, e l’opera si rivela come un grande abito, una figura solenne e composta, quasi ieratica. Ogni traccia di ironia si dissolve, lasciando posto a una compostezza inattesa.

Questa ambiguità non è casuale. L’opera, in fondo, è l’espressione di una modernità che ci ha insegnato a vedere il mondo in frammenti, attraverso una molteplicità di punti di vista che si scontrano e si sovrappongono. In un’epoca di prospettive mutevoli e interpretazioni divergenti, l’opera di Pesce sembra incarnare questa complessità: ci invita a spostarci, a cambiare angolazione, a cercare significati nuovi. E Napoli, con la sua capacità di abbracciare l’assurdo, di accogliere l’incomprensibile senza per forza risolverlo, è il contesto ideale per questo tipo di arte.

Ma a Napoli, ogni cosa si misura anche sul piano dell’autenticità. Qui la bellezza non è mai solo formale ma è l’espressione di una verità viscerale, di una vita che pulsa sotto la superficie, di una città che si è sempre raccontata senza abbellimenti. E forse per questo, mentre l’opera di Gaetano Pesce suscita curiosità e risate, non manca chi la guarda con una punta di disappunto, come se quel Pulcinella monumentale fosse solo un simulacro, un riflesso lontano dell’anima autentica della città. Napoli è una città che vuole essere vissuta, non solo guardata, e che chiede agli artisti che la omaggiano di essere all’altezza della sua complessità, di comprenderne l’essenza più profonda.
In effetti, sembra che l’opera abbia sacrificato qualcosa nel passaggio dalla visione dell’artista alla realizzazione concreta. Il risultato è una figura che molti trovano aliena rispetto alla Napoli che conoscono e amano. È un omaggio mancato, un’opera che, nella sua volontà di innovare, ha perso quel tocco di autenticità, quel “sentire” napoletano. Napoli merita un’arte che sappia parlare la sua lingua, che respiri con la stessa passione e intensità della città stessa.
Eppure, mentre mi allontano, il gigante imperfetto mi strappa un sorriso, continuando il suo gioco provocatorio, sfidandomi a interpretarlo, a comprenderlo. È questa la natura dell’arte che vuole scuotere, che non si limita a piacere, ma che invita ad osservare.
Forse è proprio questa la forza nascosta di Napoli: accogliere l’inatteso, trasformare le provocazioni in nuove prospettive, far convivere le proprie contraddizioni con la naturalezza di chi sa ridere e prendersi sul serio al tempo stesso. Così, vado via con Napoli alle spalle, una città indomabile che mi lascia il suo mistero, come un segreto sussurrato all’orecchio: “Vivi, non cercare di capire tutto, e quando credi di avermi compreso, voltati e guardami di nuovo. Sarò cambiata ancora”.