Al primo sguardo, la scultura disorienta. I passanti, fermi davanti a quella figura imponente, non riconoscono subito Pulcinella, vedono solo una sagoma quasi ingombrante. C’è chi accenna un sorriso, chi scuote la testa con un nostalgico “Eh, una volta l’arte era arte!” E come sempre, non mancano i giudizi espressi a voce alta: “Bruttina”, “Bruttina forte!”. Eppure, questo Pulcinella senza volto e senza una bellezza convenzionale sembra rispondere ironicamente, come se ridacchiasse sotto baffi immaginari: “Sì, sono bruttino… e allora?”. Perché, in fondo, non gli importa. Non è una scultura da ammirare in silenzio, né un’opera perfetta. Qui non c’è nulla di rassicurante, l’intento è un altro: sfidare lo sguardo, provocare un pensiero, suscitare una reazione.
L’opera è volutamente sgraziata, quasi una parodia dell’idea di monumento. Il personaggio di Pulcinella, non è mai stato bello: è storto, grottesco, un po’ genio e un po’ sciocco. Come lui, questa istallazione sembra dirci: “Cercavi qualcosa di classico? Hai sbagliato strada.” Napoli sembra caos e disordine, e quando credi di averla capita, ti confonde. Come questo Pulcinella senza testa, provocatorio, incomprensibile solo in apparenza, ma carico di significato se osservato con attenzione.
Guardato da una prospettiva, quella dell’imponente Palazzo San Giacomo, l’opera evoca senza mezzi termini un richiamo fallico, potente e ambiguo, un simbolo che sfida gli sguardi con ironia sorniona, quasi prendendo in giro chi passa. L’istallazione, gonfia di un’aura provocatoria, sembra suggerire una sensualità caricaturale che strizza l’occhio al folklore napoletano, a quella viscerale passionalità che è parte integrante della città stessa.
Il fallo gigante, è un elemento impossibile da ignorare! Le reazioni si moltiplicano: c’è chi ride, chi sussurra battute maliziose. Quella che può sembrare una provocazione facile, direi di vederla come un omaggio a una tradizione antica, come se l’artista ci dicesse: “Tranquilli, non è solo un simbolo fallico, è scaramanzia in formato extra large”. È una provocazione, certo, ma per nulla banale! Mi piace pensare che l’opera di Gaetano Pesce, pur essendo provocatoria, possegga una profondità che va oltre la semplice provocazione. La collego all’antica falloforia dionisiaca, un rituale che celebrava la fertilità e l’ironia, qui reinterpretato per una città come Napoli, capace di fondere passato e presente in un gioco continuo. Come Dioniso nelle processioni antiche, l’opera sembra suggerire di vivere e celebrare Napoli senza prendersi troppo sul serio, senza rigidità né giudizi.
Tuttavia, basta spostarsi di pochi passi, girando le spalle al porto e guardandola frontalmente, per scorgere tutt’altra visione: la forma cambia, gli angoli si fanno più chiari, e l’opera si rivela come un grande abito, una figura solenne e composta, quasi ieratica. Ogni traccia di ironia si dissolve, lasciando posto a una compostezza inattesa.
Questa ambiguità non è casuale. L’opera, in fondo, è l’espressione di una modernità che ci ha insegnato a vedere il mondo in frammenti, attraverso una molteplicità di punti di vista che si scontrano e si sovrappongono. In un’epoca di prospettive mutevoli e interpretazioni divergenti, l’opera di Pesce sembra incarnare questa complessità: ci invita a spostarci, a cambiare angolazione, a cercare significati nuovi. E Napoli, con la sua capacità di abbracciare l’assurdo, di accogliere l’incomprensibile senza per forza risolverlo, è il contesto ideale per questo tipo di arte.
Ma a Napoli, ogni cosa si misura anche sul piano dell’autenticità. Qui la bellezza non è mai solo formale ma è l’espressione di una verità viscerale, di una vita che pulsa sotto la superficie, di una città che si è sempre raccontata senza abbellimenti. E forse per questo, mentre l’opera di Gaetano Pesce suscita curiosità e risate, non manca chi la guarda con una punta di disappunto, come se quel Pulcinella monumentale fosse solo un simulacro, un riflesso lontano dell’anima autentica della città. Napoli è una città che vuole essere vissuta, non solo guardata, e che chiede agli artisti che la omaggiano di essere all’altezza della sua complessità, di comprenderne l’essenza più profonda.
In effetti, sembra che l’opera abbia sacrificato qualcosa nel passaggio dalla visione dell’artista alla realizzazione concreta. Il risultato è una figura che molti trovano aliena rispetto alla Napoli che conoscono e amano. È un omaggio mancato, un’opera che, nella sua volontà di innovare, ha perso quel tocco di autenticità, quel “sentire” napoletano. Napoli merita un’arte che sappia parlare la sua lingua, che respiri con la stessa passione e intensità della città stessa.
Eppure, mentre mi allontano, il gigante imperfetto mi strappa un sorriso, continuando il suo gioco provocatorio, sfidandomi a interpretarlo, a comprenderlo. È questa la natura dell’arte che vuole scuotere, che non si limita a piacere, ma che invita ad osservare.
Forse è proprio questa la forza nascosta di Napoli: accogliere l’inatteso, trasformare le provocazioni in nuove prospettive, far convivere le proprie contraddizioni con la naturalezza di chi sa ridere e prendersi sul serio al tempo stesso. Così, vado via con Napoli alle spalle, una città indomabile che mi lascia il suo mistero, come un segreto sussurrato all’orecchio: “Vivi, non cercare di capire tutto, e quando credi di avermi compreso, voltati e guardami di nuovo. Sarò cambiata ancora”.