Ci vogliono sempre almeno 24 ore per cominciare ad elaborare la morte di un personaggio famoso, qualcuno che la nostra mente lega indissolubilmente alla nostra giovinezza, quel periodo felice che vogliamo tenere sempre con noi, e che legandolo ad eventi e personaggi viventi, possiamo tenere vivo. Invece arriva sempre la notizia che un altro piccolo pezzetto se ne va per sempre. Premetto: sono un inguaribile tifoso del Toro, ma Totò Schillaci ha comunque segnato un momento importante della mia vita, quando diventando maggiorenne facevo, totalmente impreparato, il mio ingresso nel mondo degli aventi diritto di voto. Schillaci fu campione per una sola stagione, quella giusta. L’Italia si abbandonava totalmente all’euforia dei prossimi campionati mondiali di calcio “in casa”, ed io nella mia ingenua giovinezza mi feci piacevolmente travolgere da questo clima. Ero giovanissimo, ma già avevo la nostalgia di quei magici giorni di Spagna ’82, e non vedevo l’ora di riviverli, questa volta con il bonus della presenza allo stadio, per assaporare ogni momento di un evento veramente mondiale. Tutti aspettavano la vittoria, soprattutto la politica, che già sentiva i primi scricchiolii dell’imminente tangentopoli, e aveva bisogno dell’oppio del successo calcistico per nascondere quello che fu il volto grigio di quel mondiale: corruzione, spreco, opere inutili, mafia, stadi mal progettati e mal costruiti, primo fra tutti proprio il Delle Alpi torinese, che durò meno dei debiti che aveva generato. Schillaci era reduce da un bel campionato di serie B con il Messina, nell’anno in cui il Torino retrocedeva nuovamente in serie B (ahimè). In quel tempo gli stranieri erano pochi, e le grandi squadre come la Juventus andavano ancora a pescare i giocatori nella periferia del paese. Totò arrivò a Torino senza grandi clamori, ma nemmeno mugugni, altri tempi, i tifosi vedevano in lui un potenziale nuovo Anastasi, non c’era l’ossessione della Champions e del campione a tutti i costi, anche a rischio del fallimento. Quella stagione gli andò tutto bene. La Juventus, in verità non una grande squadra, in un campionato vinto dal Napoli, grazie ad un grande allenatore come Dino Zoff, vinse Coppa Italia e Coppa UEFA. Schillaci macinava gol e titoli sui giornali, mentre i grandi attaccanti nella nazionale di quel periodo cominciavano a sentire la pressione di un mondiale che si doveva, non poteva, vincere. Al massimo il poteva era concesso sul perdere. Serena non era quello dell’anno prima, Vialli calò nel finale, Carnevale non pervenuto, mentre tra Mancini e la nazionale il feeling non sarebbe mai esploso. Restava in alto solo Baggio, che terminò la classifica dei bomber dietro a Van Basten, e lui, il piccolo siciliano dagli occhi spiritati. La nazionale aveva un allenatore coraggioso: Azeglio Vicini, che subentrato a quel monumento nazionale di Bearzot, si portò dietro il blocco della sua Under21, e fece un Europeo in Germania nel 1988 di alto profilo. Ci fossero stati Lippi o Sacchi, Schillaci sarebbe rimasto a casa, e oggi avremmo saputo del suo infame destino con un trafiletto a pagina 27, invece una maglia per lui c’era eccome, anche se da panchinaro. Insomma, l’ultima carta da giocare, nel momento della disperazione, ma comunque nel mazzo. Prima del mondiale una sola partita, un’amichevole con la Svizzera, terminata 1-0 per l’Italia. A Roma subentrò al 74’ di Italia-Austria, che non voleva sbloccarsi dallo zero a zero. Entrò, e segnò, di testa, su cross di Vialli. Il destino li accomunerà nello stesso tragico finale. Segnò ancora, e ancora, e ancora, sei gol. Capocannoniere, come Pablito in Spagna, ma meno fortunato. L’Italia sarà “solo” terza, in un mare di delusione ital-popolare. Schillaci divenne il simbolo positivo di un mondiale negativo, perché qui se non vinci non sei nessuno, e gli tornerà molto utile in futuro. Come ho scritto sopra, sarà campione solo per una stagione. Ragazzo semplice Totò, di provincia, di quella vera. Ancora di quei giocatori con la passione per il calcio, prima dei soldi, visse un sogno forse troppo grande per le sue reali capacità, e visse un privato devastante per un uomo sincero e senza difese emotive. Un paio di stagioni ancora nella sua Juve, ma senza più incidere come nella prima. Forse la cacciata di Zoff per dare spazio all’estemporaneo Maifredi, non lo aiutarono. Il tentativo di rilancio con l’Inter, altre due stagioni di pochi alti e tanti bassi, e quindi il momento (giusto) di monetizzare la sua fama di “bomber dei mondiali”. Volò in Giappone, la prima meta esotica fuori dall’Europa, prima ancora di Cina e paesi arabi, cercavano vecchie glorie per lanciare il football nel paese dove dominavano gli sport statunitensi. Tornò in Italia in punta di piedi, a cominciò a restituire alla sua Sicilia quello che il calcio gli aveva regalato. Fondò a Palermo una scuola calcio che porta il suo nome, e alternò un impegno sociale a qualche rada ospitata in tivvù, sempre con quel taglio nostalgico sulla sua grande, e unica, estate da campione. Negli ultimi anni divenne personaggio televisivo in quei tanti programmi ai limiti del trash, dove però la sua umanità, il suo essere vero, spiccavano sui tanti altri coprotagonisti che invece lì erano a fare la loro recita. Lo ricordano per la sua partecipazione a Pechino Express, molto toccante nel suo racconto della malattia. Non è visto nemmeno un secondo, così come l’Isola dei Famosi. Invece me lo ricordo a Back to School, mi capitava di sbirciare qualche frammento di repliche del sabato pomeriggio. Era adorabile con i bambini, il guizzo degli occhi spiritati, ma altezzoso o sopra le righe, austero ma paterno da vero siciliano, capace anche di una sottile autoironia, tipica di chi è personaggio nonostante sé stesso. Schillaci è stato vero, in ogni sua sfumatura, anche all’apice del suo successo. Se ne va un pezzo di gioventù, quello forse più umano.
Paolo Cuccu