La curiosità è come una lente di ingrandimento che svela i dettagli invisibili ad occhio nudo. È come tenere in mano uno strumento che non solo amplifica la visione, ma anche il senso di comprensione. Questa lente non si limita a rendere visibili particolari nascosti, bensì trasforma la semplice osservazione in un’esperienza rivelatrice e profonda.
Avvicinarsi al “San Sebastiano” di Andrea Mantegna, esposto nella Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro di Venezia, suscita una curiosità simile a quella di una lente di ingrandimento. A prima vista, il dipinto può sembrare una scena di martirio ben definita, ma solo avvicinandosi con uno sguardo curioso e attento i veri dettagli iniziano a emergere.
Le pennellate di Mantegna definscono con precisione il corpo del martire: ogni vena e muscolo sono tesi in un’agonia silenziosa, in un fremito sul punto di esplodere in un lamento disperato. Il gioco di luci e ombre diventa più marcato, accentuando le ombre sul volto di Sebastiano, che sembrano riflettere non solo il dolore fisico delle frecce, ma anche un tormento interiore profondo. La luce, che sembra provenire da una fonte invisibile, illumina alcune parti del corpo mentre altre restano in penombra, rendendo il martirio del santo ancora più intenso e palpabile. Si evidenziano le sfumature del sangue che escono dalle ferite: non è un rosso uniforme, ma una varietà di toni che va dal carminio al marrone. Mantegna sembra aver catturato non solo l’istante della ferita, ma anche il passare del tempo. Ogni goccia di sangue sembra pesare, quasi come se fosse una sofferenza reale bloccata sulla tela.
Il dinamismo della scena è amplificato dalla postura inclinata e dai capelli e dal drappeggio scompigliati dal una folata di vento, che infondono un senso di vivacità e tumulto che amplifica l’intensità della scena.
La lente della curiosità non solo ingrandisce i dettagli fisici, ma anche quelli emotivi e simbolici, permettendoci di cogliere la profondità che si cela dietro l’apparente semplicità dell’immagine.
Il pennello di Mantegna racconta la sua vita, le sue sofferenze e le sue paure attraverso una narrazione visiva che invita alla riflessione e alla scoperta, svelando la sua straordinaria maestria e ricchezza espressiva.
La tela era destinata al vescovo di Mantova, Ludovico Gonzaga, ma alla morte dell’artista (1506) rimase nel suo studio; poi passata da Pietro Bembo a Antonio Scarpa e ai suoi eredi, fu acquistata nel 1893 dal barone Giorgio Franchetti per la sua Ca’ d’Oro. Ora è di proprietà pubblica e gestito dalla soprintendenza del Polo museale di Venezia.
L’opera si configura come un potente manifesto esistenziale, carico di significati profondi e di notevoli innovazioni tecniche che amplificano la forza emotiva dell’opera, trasformando il martirio in un’esperienza visiva e concettuale intensa.
Probabilmente tra le ultime creazioni delle mani sapienti di Mantegna, questo capolavoro trasmette un pathos che va oltre la semplice rappresentazione del martirio.
Alla fine della sua vita, Mantegna infonde nel “San Sebastiano” tutta la consapevolezza di un uomo che avverte l’avvicinarsi del crepuscolo. Sente il tempo stringere e riconosce ogni giorno come un dono prezioso ma anche una moneta che scivola via. Il suo stile inquieto emerge chiaramente: il vento che accarezza il volto sofferente del Santo simboleggia la fragilità della vita, un soffio capace di spegnere l’esistenza in un istante. La candela spenta in basso, con il cartiglio “Nulla è stabile tranne il divino: il resto è fumo”, intensifica questo messaggio, come se ogni parola dovesse imprimersi nella mente con la stessa forza delle frecce nel corpo del santo.
In questo contesto, la candela diventa un memento mori personale, un addio all’arte e alla propria esistenza, espresso attraverso un linguaggio pittorico unico. Questo simbolo invita a riflettere sulla bellezza e verità oltre l’effimero, suggerendo che il significato della vita risiede nel riconoscere la sua transitorietà e cercare un legame con il divino.
Sulle gambe di San Sebastiano, le frecce, crudeli strumenti di martirio, veicolano un messaggio duplice: formano la “M” della Morte, inesorabile e vicina, e la “M” di Mantegna, che lascia un segno indelebile sulla tela, suggerendo che, nonostante tutto, qualcosa di lui continuerà a vivere. Mentre il piede sinistro del Santo ben saldo a terra, contrasta con il destro sollevato in un gesto di avanzamento, che suggerisce un tentativo di liberarsi dalla sofferenza e ascendere a una dimensione superiore.
Questo capolavoro del Mantegna, rappresenta il martirio attraverso il “fuoco” del dolore e della sofferenza, ma anche il “fumo” della transitorietà e dell’effimero, dove si approfondisce il tormento fisico e spirituale del santo, ma anche la riflessione sulla fugacità della vita e dell’esistenza umana.
Attraverso la lente d’ingrandimento dell’emozione e della riflessione, si svela un’opera di straordinaria potenza emotiva che sfida i confini dell’arte e gioca con la percezione, trasformando il martirio in un’esperienza universale, un dialogo silenzioso ma profondo con chiunque vi si soffermi.