Si ritiene sempre, senza dare spazio ad alternative, che la verità appartenga in esclusiva alle situazioni del reale. Spesso è in ritardo nei risvolti della storia, eppure resta obbligatoriamente figlia di riscontri deducibili da eventi, che non lasciano per principio affiorare il dubbio.

Solo nell’arte questo dogma viene vanificato. Nei dipinti di grandi maestri, “pazzi di genialità”, quali Bosh, Cosmè Tura, Picasso e non ultimi, Warhol o Schifano, il “vero” è replicato sotto condizioni che ne falsano l’immagine, sebbene ne lascino intendere le originalità di appartenenza. Sommi scultori immettono nella materia fermenti irreali. Architetti “col cuore fuso in menti trasgressive”, edificano soluzioni che paiono irridere le stabili regole delle costruzioni, eppure oltre ad ospitare cose de umanità, esse ottengono di allenare al “bello” l’occhio di chi le osserva.

I fotografi non sono da meno, e nello specifico i tre Artisti qui presentati, Andreja Restek, Fluvio Colangelo e Paolo Pazzi, sul mondo catturato dai loro obiettivi, non derogano da tale “modus”, riuscendo a calamitarci l’interesse.

La più rettilinea nella comunicazione visiva è Andreja Restek.

Dai suoi lavori, affiora inattaccabile il suo “passato-presente” di reporter. In ogni fotografia, specie in “Primo Maggio”, la realtà del vero parla da colori e contorni, per balzare poi imperiosa fuori dalla carta. Nemmeno lei però, lo serve “al naturale”, il proprio pensiero documentativo i colori che riesce a elaborare, imprigionandone l’essenza, sono marchiati d’incredibile. Lei corre dal medioevo al futuro del terzo millennio, impostando cromie di fascino, azioni selezionate e anatomie in censimento con una professionalità oggettiva rara a incontrarsi.

Brava: sarebbero piaciute a Pasolini (usava gli stessi componenti nella propria cinematografia), queste fotografie di “verità composte”.

Intelligenti e altrettanto vissuti nell’intimo, i lavori di Fulvio Colangelo: colori infiammati dall’entusiasmo, che una volta giunti ai margini delle figure, rientrano docili nel confine di un aristocratica  gestione delle identità rappresentate. Le solennità dell’antico e del contemporaneo si scambiano le reciproche valenze, per mirare all’eleganza definitiva.

Sinopie orientali e simbologie di grafica celata, altro non sono che “tatuaggi” della memoria”; non deformazioni che umiliano la figura, bensì “decorazioni astratte”, quasi richiami ad una fantasia scomparsa, che il maestro intende quale eredità di vite anteriori. Un applauso al suo stile, scevro da banali citazioni e “deja vu”, esso fora come un ago indolore.

Paolo Pazzi: poeta e guerrigliero dell’immagine, filosofo contestatore di realtà vissute sulla propria pelle, e “ritrasmesse” quindi dalla macchina fotografica all’usufrutto dell’osservatore. Le sue sono “censure dilatate”, per aprire meglio gli occhi sulla comprensione del contenuto stampato. Sono “urla di silenzio” (proverbiale in tal senso la bocca spalancata), sul prossimo tracollo di una società scomposta.

Sono “Wanted”, che promettono un futuro certamente peggiore del tempo attuale, predetto però oggi con una “verità figurata”, che forse non ci spaventa più.

Nella malinconia c’è un allarme, nella solitudine di un volto di pietra un’eco turbata di uomini che vivono. Dall’espressione immobile che ci fa da specchio all’incanto di una donna al muro, come passione cocente, stupita, muta. E’ il senso appena dolente di un tempo il cui scorrere diventa memoria. Artista in una terra rossa di un campo in battaglia, testimone di luci che hanno toccato vertici che intimamente nascondiamo. Prestigiatore di una società sul filo.