Avventura adrenalinica, passione per la fotografia, fascino per il decadente ovvero per i luoghi dimenticati che riescono ancora a emozionare, sono questi i motori comuni che oggi attraggono sempre più persone, seguaci che condividono in particolar modo sul web, scatti e racconti delle spedizioni.

Una pratica moderna ma che affonda le sue radici nei bisogni di un’antica memoria umana. Il mistero, la misticità, il silenzio, le rovine e ciò che viene celato dietro di essi, hanno sempre affascinato l’uomo e da qui, la voglia di esplorare. “Take nothing but pictures, leave nothing but footprints”. Non portare via nient’altro che le fotografie, non lasciare altro che le tue impronte: questo è il motto per gli Urban Explorer, i cacciatori di luoghi abbandonati più suggestivi. Nature morte da guardare in “Musei” sempre diversi ma con l’unico comunemente denominatore: l’assenza dell’uomo.

Architetture e oggetti fatiscenti che come moderne vanitas stanno a ricordare la perdita di un passato, un logorio lento di memorie e valori. Memorie nascoste, dove il fotografo urbex è l’unico privilegiato testimone che celebrando l’estetica dell’abbandono ci mostra quadri dal tocco quasi surreale. Il suo shoot squarcia il silenzio bloccando l’istante di quel polveroso passato vitale, quale presente lembo malinconico e decadente futuro velato di speranza.

Già nel Rinascimento Botticelli e Mantegna furono attratti da ciò che rappresenta un passato lontano, dipingendo le rovine classiche in tutta la loro dilapidata ma splendida decadenza. Anche se oggi siamo davanti ad una nuova tendenza d’immagine, imperniata sul degrado urbano, la fotografia di questo tipo di reportage, immortala gli struggenti luoghi carichi di storia, ognuno invecchiato a suo modo, dove la natura si riappropria del posto creando un’estetica spontanea. Ogni luogo, dal più fatiscente e pietoso edificio alla più lussuosa location, dà la misura del provvisorio, elevando al tempo stesso una flebile possibilità: un’opportunità di rinascita.

Massimiliano Reddavide, per i social Maci, membro del gruppo urbex di fotografi più famoso al mondo, gli americani di jj urbex, è spesso in viaggio alla ricerca di luoghi da esplorare seguendo regole dettate dal rispetto e dall’esperienza, per raccontare con i suoi occhi lo scivolare del tempo. In questa intervista spiega, in cosa consiste per lui, questo modo di esplorare e di guardare la bellezza oltre il degrado.

D: Quando è iniziata questa tua passione per la fotografia di esplorazione urbana?

R: Circa 2 anni fa a Malta, è una città piena zeppa di chiese lasciate andare allo sbaraglio; lì dentro ci sono le nostre radici, le guerre sacre che i nostri avi hanno affrontato per sconfiggere i saraceni.

D: Oggi sei riconosciuto come uno dei membri degli jj urbex, come sei riuscito a farne parte?

R: Pubblicando le mie foto su vari siti internazionali di notevole importanza nel campo del urbex. Una notte mentre dormivo mi è arrivata una notifica sul cellulare, non credevo ai miei occhi, era la nomina come membro parte del gruppo urbex di fotografi più famoso al mondo, gli americani di jj urbex. Sono rimasto meravigliato e compiaciuto, perché prendono solo i migliori; sono stato sempre affascinato, ammiravo tutte le loro fotografie per ore, essere uno del loro gruppo è un sogno diventato realtà.

D: Ma cosa c’è di così affascinante ma anche discretamente inquietante, all’interno di questi luoghi abbandonati?

R: Non ci crederai, ma a volte mi capita di sognare quello che troverò all’interno del luogo da visitare nel giorno successivo: il tempo che si ferma nel momento esatto che diventa deserto, disabitato, la polvere che fa patina, l’umidità sui muri, i quadri di altre epoche e del sentito dire, di personaggi famosi all’epoca in cui vi abitavano. Sembra di entrare nelle favole senza un lieto fine, un triste declino che solo gente come noi porta ancora in dote ad altri, potremmo definirci cantastorie del terzo millennio.

D: Affascinante immaginare la vita di chi che ha animato questi luoghi nella loro quotidianità.

R: Si, lì vedi tutto: le passioni, le delusioni, lettere di vite passate e ti fanno immaginare tempi mai vissuti. Gli oggetti che si trovano all’interno di queste strutture raccontano storie romantiche, di disagio, di lavoro, di vita quotidiana. Fotografarli significa quasi riportarli in vita.

D: Immagino che sei sempre alla ricerca di location fatiscenti, ormai l’odore ti è entrato dentro! Quale tipo di categoria di luogo ti piace fotografare di più?

R: Adoro il cinema del periodo fascista o i teatri dell’opera, forse perché dopo le chiese sono i luoghi con il più alto contenuto d arte , forse perché erano luoghi che al popolo non veniva concessa la visione e così mi sono accanito nel ricercare questi posti sparsi per l’Italia, cercando di dar voce o meglio occhi a chi non ne ha mai beneficiato.

D: Cosa evoca di più in questi luoghi a differenza di altri?

R: Le sedie rigide in legno che odiavo fin da bambino, ma che era l’unico svago dalla quotidianità; allora non avevamo internet e per conoscere il mondo ci si affidava al grande schermo. È un po’ un tornare bambino, vedere i tariffari in lire, fa riflettere, alla velocità dei tempi moderni, viviamo più a lungo ma male rispetto a prima.

D: Immagino che siano esperienze intense e alquanto pericolose, come ci si tutela?

R: Quasi mai esploro da solo, non sarebbe possibile, occorre l’aiuto di almeno un’altra persona, poi non sempre i posti sono privi di pericolo, ad esempio negli ex nosocomi vivono anche tossici o altri elementi che col sociale hanno poco a che fare, noi andiamo in giro con attrezzature iper costose. Fortunatamente nella mia vita ho imparato a difendermi abbastanza bene, ma consiglio a chiunque di portare almeno un’altra persona. Ti confido che porto con me sempre un bastone!

D: Le tue avventure fin dove ti hanno portato, mi racconti un’esperienza particolarmente emozionante?

R: Vedi siamo tutti figli di due curiosi, Adamo ed Eva, la prima volta che ho varcato un manicomio, mi ha dato un senso di tristezza, respiravo le atrocità che hanno subito persone come me, solo perché nel fine 800 non c’erano cure adeguate. Ho visto quei letti in camere cosi piccole con entrate su grate, le camice di forza buttate negli angoli, i documenti di morte nelle sale di registro; e poi il reparto infantile coi peluche tutti maltenuti, lesi nel tempo. Ho pianto, mi sono chiesto che razza di animale è l’uomo, privo di rispetto per il dolore, è un’egoista! C’erano camere con la pratica dei bagni ghiacciati per i detenuti più irruenti. A Voghera, dove Lombroso faceva esperimenti, c’erano ancora i teschi con i chiodi conficcati nel cranio, per lobotomizzare quelli più pericolosi! Ora l’edificio è chiuso, hanno murato tutte le entrate, e spostati in un museo, ma erano lì visibili nei reparti! Questa è realtà non è fantasia.

D: Cosa hai visto e potuto fotografato in particolare?

R: Macchinari per l’elettroshock, ero alle prime armi, con la macchina fotografica; considera che questi sono luoghi pressochè bui, il materiale lo conservo ancora nel mio database. Sono luoghi del dolore, in me accresce il morbo del conoscere, del sapere, il sapere come era la vita nei luoghi più pericolosi delle carceri.

D: Per cui sono foto che non pubblicherai?

R: No, pubblico la vita all’interno di questi luoghi, non la morte.

D: Un luogo che ti ha dato emozioni positive?

R: La casa del sombrero, per via della difficoltà a varcare la soglia. Sono di Torino, tutte le volte era uno sbattimento di 600 km a vuoto, erano 2 anni che volevo entrare e non riusciamo mai a trovare il varco. Una volta dentro, mi sono sentito arrivato, per la bellezza degli affreschi, per le tecniche ormai estinte da tempo che solo i nobili o i ricchi potevano permettersi, ricordi dell’epoca appartenuti ad un dottore. È un luogo eclettico, cult dell’urbex, famoso soprattutto per il suo divano circolare di colore verde, che per l’appunto ricorda il sombrero.

D: Ti è mai capitato di essere beccato mentre stavi perlustrando o fotografando?

R: Più di una volta, è da mettere in preventivo, come la varicella per i bambini, sta ad ognuno di noi l’arte di saper contare balle a dovere a chi sta di fronte; di solito mi spaccio per giornalista che vuole fare un servizio sui luoghi dell’abbandono, fino ad ora ha funzionato.

D: Alcuni utilizzano Google Maps, per cercare dall’alto i segni di abbandono di abitazioni, tipo tetto e muri in parte crollati, anche tu lo utilizzi, oppure, come trovi i luoghi da visitare?

R: Idem, e poi ho anche contatti con persone fidate in varie zone dell’Italia, abbiamo un codice etico. Ci scambiamo le notizie in maniera molto limitata, cioè solo tra persone fidate, proprio per via del fatto, che non tutti fanno urbex correttamente; c’è chi ruba, chi rompe, vandalizza, e questo porta a limitare le informazioni ad un ristretto numero di persone.

D: Il tuo scopo in questo tipo di fotografia?

R: La voglia di preservare il passato, di documentarmi sulla storia dei luoghi esplorati, delle persone che vi hanno vissuto, e poi sento un senso di benessere interiore. Rimango a guardare ammirato affreschi, la mente umana non è un vaso da riempire ma un fuoco da accendere, queste situazioni provocano un fuoco dentro me.

D: In tutte le tue foto grazie a ottiche grandangolari ci catapulti in un mondo avvolgente, deformato come in un sogno ed una luce, un’aura affascinante ed enigmatica che ridesta ogni torpore

R: Si, la luce come se dessi ancora un’altra chance a questi edifici e permettergli di gridare al mondo che sono vivi. In quel tipo di abitazione ho solo l’imbarazzo della scelta per far godere i miei occhi.

D: La prossima location?

R: Ho un teatro tra Mantova, Ferrara, Venezia e a seguire Francia

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