“Era evidente che non ci avrebbero fatto passare e che saremmo stati arrestati in acque internazionali, come i partecipanti alla Flotilla che ci ha preceduto, ma era giusto andare avanti con un’azione gandhiana molto rischiosa”.
A parlarci, finalmente tornato in Italia da Israele, è il monaco buddista Dharmapala (Claudio Torrero), insegnante di filosofia in pensione di Lanzo Torinese, imbarcato sulla “Conscience”, nave madre della “Freedom Flotilla”, incarcerato nel deserto del Negev, insieme a oltre un centinaio tra medici, cooperatori e giornalisti, e rientrato grazie ad un volo messo a disposizione dalla Turchia.

 “Il nostro obiettivo era di richiamare l’attenzione internazionale sul dramma di Gaza, forzando il blocco navale perdurante da 18 anni”.

Il monaco ha ripercorso i momenti più drammatici vissuti in Israele, ed è sorprendente la crudezza e l’indignazione manifestata da una persona pacata, con umanità e tolleranza, promotrice del dialogo interreligioso, con l’associazione Interdependence.

Il monaco buddista Dharmapala (Claudio Torrero).
Il monaco buddista Dharmapala (Claudio Torrero).

L’assalto alla “Conscience”  

“Ero sulla Conscience, che aveva un equipaggio turco, quando ci hanno attraccato le forze militari israeliane (erano molto giovani, alcune soldatesse sono state le prime a salire, rompendo subito le nostre telecamere), noi abbiamo gettato i telefonini in mare”. E aggiunge su quei concitati momenti: “Ho notato che alcuni dei nostri compagni, tra i quali Noa Avishag Schnall, fotoreporter e scrittrice di origine yemenita, nata a Los Angeles, sono stati subito allontanati con le mani legate”.
La donna, appena liberata, ha denunciato pesanti maltrattamenti da parte delle forze israeliane.

“Arrivati al porto di Ashelon, dopo 14 ore in nave, ci hanno fatto inginocchiare sul cemento della banchina, qualcuno è stato preso a calci, mentre qualche guardia ridacchiava. Un atto umiliante (sulla Conscience vi erano persone e di tutte le età, anche due over 80), ma non era ancora nulla rispetto a cosa ci sarebbe aspettato nel viaggio e nella permanenza nel carcere speciale di Keziot, nel deserto del Negev”.

“Per il viaggio verso il carcere ci hanno legato i polsi, in modo da sentire dolore, mentre sugli occhi ci hanno messo una benda strettissima. Ogni tanto ballonzolando la mia testa finiva contro le pareti del bus che aveva una temperatura da frigorifero”.


Il carcere politico di Keziot: nemmeno carta igienica e medicine

“In quel carcere tremendo siamo stati due notti, a partire dall’8 ottobre. Eravamo otto per cella con un microscopico lavandino. Ci hanno dato solo una tuta grigia, ma nessun rotolo di carta igienica, nessuna possibilità di fare una doccia e il cibo era una brodazza in un piatto per otto persone. Quando siamo arrivati, tutti i nostri beni sono stati meticolosamente registrati e fotografati. Ma quando siamo usciti non ci hanno restituito nulla, nemmeno i documenti. Non mi è stata data la possibilità neanche di avere le mie medicine.

E’ sparito anche il mio abito da monaco. La cosa mi ha sorpreso in quanto in Israele il buddismo è molto rispettato, più di quanto si registra con cristiani e soprattutto musulmani”.  

Il carcere speciale di Keziot, nel deserto del Negev.
Il carcere speciale di Keziot, nel deserto del Negev.

Per il monaco piemontese quel carcere è stato un inferno con un’atmosfera da campo di concentramento: “Ricordo, la prima sera in cella, lo sguardo gelido di quel medico con la kippah che ci ha guardato più che visitato.  Non siamo stati picchiati, ma pesava come le guardie con la Kippah (non i soldati) ci osservassero con autentico disprezzo e ho percepito una sorta di sadismo nel loro trattarci come terroristi. Sono convinto che ci odiassero e avrebbero fatto ben di peggio, se non ci fosse stata la pressione dell’opinione pubblica mondiale a tutelarci”.

Torrero non ha incontrato prigionieri palestinesi, ma qualcuno afferma di aver sentito nel carcere delle urla…

Sulle pessime condizioni in cui si ritrovano i detenuti palestinesi, uno squarcio è emerso a seguito dello scambio con gli ostaggi.

Certo non vi è paragone con i metodi di Hamas verso chi si oppone, ma da uno stato democratico ci si aspetterebbe ben altro.

Torrero ricorda, come unico riscontro positivo di quei giorni di carcerazione, il breve incontro in una grande gabbia, tra il  console italiano e i connazionali reclusi. Una bella e raffinata signora che ha cercato di fare quanto era possibile in quell’inferno. Questo in assenza della benché minima protesta del nostro governo verso Tel Aviv. Un governo non solo silente, ma anche fortemente ostile verso la “Flotilla” che ha coinvolto decine di paesi.

Il ritorno grazie ai turchi

Dopo aver firmato per l’immediata espulsione, evitando un processo che avrebbe solo allungato i tempi di detenzione, il gruppo della “Flotilla” è stato trasferito all’aeroporto di Eilat sul Mar Rosso, dove l’attendeva un aereo messo a disposizione dalla Turchia.

“Siamo usciti dal carcere in tuta e in ciabatte, affamati, ma felici di chiudere con quel girone infernale. Ripeto, non siamo stati picchiati, ma trattati come dei terroristi”.

L’ex docente di filosofia aggiunge:  “Nella breve sosta nell’aeroporto israeliano abbiamo sentito voci che ci additavano cantando ‘Bye Bye Palestine’. A una donna che ci sbraitava contro ho risposto mandandole un bacio”.

 Sull’aereo destinazione Istanbul, increduli, si sono tutti abbracciati.
“In Turchia il gruppo della Flotilla è stato accolto con stima e amicizia, rifocillato e vestito, ricevendo anche il caloroso ‘Welcome brothers and sisters’ dal ministro degli Esteri. In quel momento ho ripensato all’assoluto distacco delle nostre autorità governative”. 

Per i compagni della Flotilla la Turchia si è rivelata un altro mondo, rispetto a quegli israeliani che hanno anche requisito tutte le imbarcazioni in acque internazionali, utilizzate per questa impresa di “persone generose che hanno sentito le sofferenze di un popolo che non possiamo non vedere”, citando l’espressione del monaco Bhante Dharmapala, nel  suo videomessaggio dalla “Conscience”: “Verso Gaza con amore: per salvarci da una catastrofe” esprime come alla catastrofe sofferta dal popolo palestinese si colleghi quella morale del mondo ebraico e della sua cultura.