Il capo indiano parla con tono pacato davanti a due tende e un nugolo di persone in cerchio.  Iniziano le danze, ritmate dal tamburo, in cui ogni gesto, ogni simbolo ha un legame con l’universo di un popolo antichissimo (15 mila anni fa sono arrivati dallo stretto di Bering) che si estese su aree diversissime per clima e condizioni ambientali del continente americano.

Non siamo in una riserva Navaho ma immersi nel verde dell’alto appennino genovese, a Casa del Romano (Comune di Fascia), nello splendido Parco dell’Antola, per il ventesimo raduno, festa della Madre Terra,  della comunità degli indiani d’America, con tanto di tende indiane.   L’iniziativa, promossa dall’associazione per la diffusione delle tradizioni dei nativi d’America Hunkapi, vede protagonista un gruppo proveniente dal Canada, (gruppo Dakota di cui faceva parte Toro Seduto) che vive nel genovese.  Ai balli carichi di simbolismi si sono alternati messaggi e racconti di pace e di armonia con la natura, che ben esprimono quel profondo e antico spirito che oggi definiremo ambientalista e un tempo panteista.  Protagonisti delle danze e dei racconti sono  Micheal Auger, regista, storyteller, suonatore di tamburo e la moglie Petie Danette Chalifoux, danzatrice dei cerchi, regista e sceneggiatrice insieme ad altri appartenenti a questa comunità.

Un incontro, ricordano i promotori, che solo inizialmente ha avuto il supporto degli enti locali ma che da tempo, pur con il patrocinio del Parco dell’Antola e del Comune di Fascia, si realizza grazie al  grande impegno dei volontari e di un pubblico eterogeneo proveniente, anche da molto lontano, affascinato da  un mito che resta radicato specie negli over 50.

Questo mentre imperversano i finti sciamani e restano ancora forti gli effetti di tanti film di Hollywood, espressione di una cultura di fatto suprematista che al massimo si limitava a portare avanti il mito di qualche singolo “buon selvaggio”.   Ad aprire la mente su cosa davvero accadeva negli accampamenti indiani durante gli assalti delle giubbe blu furono importanti  tre pellicole del 1970: “Soldato blu” (1970), “Un uomo chiamato cavallo” e  “Tre piccoli indiani”.

Riserve e casinò

Oggi esistono centinaia di riserve indiane, regolamentate a seconda delle normative del singolo stato (una sorta di autonomia differenziata). Nelle riserve si è registrato in questi anni un proliferare di ranch, accampamenti tradizionali, resort, B&B e case da gioco, (se ne contano oltre 200), con a fianco il tepee (tenda indiana). Fattori che offrono reddito ma che non sembrano molto edificanti per la difesa dei quell’autentica identità culturale che deve combattere alcolismo, disoccupazione e quella tendenza che vede i giovani pellerossa abbandonare la riserva in cui sono cresciuti.  Certo il quadro generale permane critico anche se non mancano le fonti di reddito legate al turismo, ai mercatini di artigianato, i Powwow (raduni indiani) e a quei casinò che certamente assicurano importanti proventi che non è chiaro con quali criteri vengano poi redistribuiti e investiti nella comunità. A vedere le condizioni di gran parte delle abitazioni delle riserve, alquanto fatiscenti, non pare che emerga una grande redistribuzione sociale.

Come nasce il “tifo” per e Sioux e Apache

 Sono stato coinvolto in questa kermesse pellerossa grazie all’ostinazione di un amico 59enne, Roberto Faoro, vero cultore del mondo indiano che ci ha raccontato le origini di questa sua passione.

“Non ero ancora in grado di leggere ma restavo incantato davanti alle “strisce”, ovvero i primi fumetti (orizzontali), di Tex, insieme a quelli di Black Macigno e Capitan Miki). Quelli con Doppio Rhum e dottor Salasso che preferivo a Topolino. Poi vi furono i film western, in cui gli indiani erano protagonisti, anche se eterni perdenti di fronte a quei “civilizzatori” in giubba blu, che li hanno gradualmente fatti sparire.

Roberto, originario di Lamon (Belluno), lavora e ama Torino, aggiunge: “ricordo i capricci che feci in quel cinema dove vidi il mio primo western da cui non volevo più uscireOvviamente giocavo con i soldatini che erano piccolissimi e tifavo per gli indiani, sviluppando delle strategie in cui non vi era mai un vincitore”.

Faoro crescendo ha approfondito il tema indiani documentandosi anche su volumi che erano preda dei collezionisti, rimanendo colpito dal discorso naturalistico di un affasciante e variegata identità culturale , che, a suo parere, è poco seguita e approfondita come meriterebbe.   In tal senso sono eloquenti le parole profetiche del capo Sioux  Toro Seduto (1831-1890) sulla difesa delle purezza delle acque e sul futuro di un ambiente devastato e inquinato dai bianchi, presi a espandere senza scrupolo alcuno il loro spazio con le loro ferrovie, eliminando ogni traccia e ogni spirito di una storia millenaria, ritenuta un’espressione selvaggia e  un ostacolo alla sete di ricchezza e di dominio. Uno sfregio che si è manifestato in quella tragica moda di sparare anche per divertimento ai bisonti (uccidendone circa 60 milioni), portandoli alle soglie dell’estinzione. Questo per strappare la lingua di questi poderosi animali, mentre gli indiani del bisonte non gettavano via niente.

Un genocidio

Si stima che furono tra i 55 e i 100 milioni i nativi americani eliminati con le armi o dalle numerose malattie portate dai civilizzatori occidentali dopo l’arrivo di Cristoforo Colombo (1492).   

Snaturalizzati e indrottinati

Alla mera repressione e violenza, avviata dagli inglesi nel 1763 con il regalo di coperte al vaiolo ai nativi indiani, (prima forma di guerra batteriologica), che fecero una strage nel Nord America, si aggiunse la consuetudine dei colonizzatori di voler cancellare ogni segno della cultura locale. Un fatto quanto mai odioso per popoli così orgogliosi della propria identità.

Nessuna parola, nessun culto, nessun costume dei nativi veniva tollerato. Si arrivò anche a vedere il meticciato come pratica per cancellare anche geneticamente ogni traccia di queste popolazioni. Questo per eliminare alla radice ogni spirito ribelle.  Un fenomeno che si è ripetuto e si ripete nelle dittature e nelle moderne autocrazie dove ogni segno di cultura preesistente deve essere cancellato o ridimensionato e che passa anche a quei fenomeni di rivisitazione storico culturale.  Un fenomeno che vede la buona compagnia di quei talebani che fanno esplodere e distruggono ogni simbolo dei culti e della storia del passato.

Tornando alla repressione degli indiani, in queste lotte si distinsero anche gli spagnoli che cercavano di espandersi  (Messico) alla ricerca del  mitico Eldorado (presso gli indiani l’oro è quasi inesistente), scontrandosi con un mito apache, rimasto nei secoli, come Geronimo. Un capo che, da tranquillo uomo di medicina si trasformò in un temibile capo guerriero dopo che gli sterminarono l’intera famiglia.

Scalpi

 Gli scalpi, a differenza di quanto si ritiene, divennero una tragica usanza più per gli occupanti che per gli indiani, essendo ben retribuita la loro consegna.

Una decisione della Camera di Consiglio di Boston del 1775 riconosceva ben 40 sterline per ogni scalpo indiano adulto consegnato.  Mentre nel Nuovo Messico nel 1835 per uno scalpo di un Navajo o di un Apache si arrivava a 100 pesos, che diventavano 50 per uno scalpo femminile e 25 per un fanciullo. Un dato che la dice lunga sulla crudeltà, senza limiti di età, sui nativi ritenuti selvaggi senza dio. Un fenomeno che attirò l’operatività di criminali senza scrupolo che, pur di aumentare il bottino, inserirono nel conto anche gli scalpi d qualche messicano..

 Anche nell’occupazione e delle terre indiane si ricorse a quel principio che puntava a alimentare ed appoggiare i contrasti tra tribù per indebolire un intero popolo che doveva essere cancellato.

Concludiamo con una curiosità storica poco nota che vede tanti indiani d’America impiegati come manovali nella costruzione dei primi grattacieli di Manhattan per la loro capacità di non temere di lavorare ad altezze incredibili.