Proprio per il fatto che i dati emergono dalle dichiarazioni dei redditi dei contribuenti che si sono rivolti ai Caf delle Acli (una mole di oltre 294mila dichiaranti occupati analizzati che hanno presentato i 730 continuativamente dal 2019), si tratta di statistiche molto attendibili. In generale, i lavoratori “continui” (attivi almeno 7 mesi su 12) che si trovano sotto la soglia di povertà relativa sono passati dal 9,6% del 2020 all’8,8% del 2023, facendo segnare appena un -0,8%. Nell’Italia che ha visto un progressivo aumento dei posti di lavoro dal post Covid (+700mila dal 2019), insomma, l’impoverimento del lavoro è una criticità ancora lontana dall’essere superata. Lavorare, a volte, non dà abbastanza per garantirsi una vita dignitosa.
Ovviamente chi non ha continuità lavorativa ha molte più possibilità di vivere in povertà: il 69% dei lavoratori con un numero di giornate lavorative inferiori ai 210 giorni ha un alto livello di vulnerabilità economica. Per contro, l’88% di chi lavora per più di sette mesi in un anno dichiara un reddito complessivo superiore ai 15mila euro annui, mostrando quindi un basso livello di vulnerabilità economica. Non è detto, tuttavia, che la stabilità occupazionale renda immuni dalla condizione di working poor. Tra i lavoratori “continui” il 6% degli uomini ha un reddito al di sotto dei 15mila euro annui. E la percentuale sale al 20,9% per le donne. Eccola, dunque, la disparità di genere.
Le differenze sono evidenti anche sul piano territoriale. I lavoratori continui sopra i 15mila euro di reddito variano dal 78,6% della Sicilia al 90% della Lombardia, per esempio. Non solo: sempre tra i lavoratori “continui” vivere nelle zone urbane o nelle aree interne comporta una differenza di reddito media di oltre 3mila euro annui (31.648 euro per i primi contro 28.548). In pratica, abitare lontano – e probabilmente lavorare distanti – da poli di attrazione economica accresce la possibilità di avere retribuzioni inferiori.
Per contrastare la diffusione del lavoro povero le Acli hanno presentato una serie di proposte in vari ambiti: dal fisco all’istruzione.
Per Emiliano Manfredonia, presidente nazionale delle Acli, questa ricerca dimostra che c’è ancora “tanta occupazione con bassi salari o poche ore lavorate, soprattutto per quanto riguarda le donne”.
Secondo Stefano Tassinari, vicepresidente nazionale delle Acli con delega al Lavoro e al Terzo settore, sono necessarie, per esempio, politiche inclusive: “Si torni a un reddito minimo per tutte le famiglie in povertà assoluta e, insieme, si creino delle “Case del lavoro” nelle e delle comunità con una co-programmazione tra Comuni, centri per l’impiego e Terzo settore, per favorire una reale crescita delle politiche attive nel territorio e l’inserimento delle persone più vulnerabili o con disabilità”.
Sull’immigrazione, inoltre, “serve una politica regolare, non sporadica ed emergenziale, di accoglienza e integrazione”. Sulle imposte, infine, oltre a un vero contrasto al sommerso, prevedendo una maggiore tracciabilità del denaro, “si bocci la deriva politica che premia la rendita e la speculazione e carica tutto su lavoro e pensioni”. Perché la lotta al lavoro povero passa inevitabilmente anche da un cambio di rotta sul fisco.