27 gennaio 1945: i sovietici entrano ad Auschwitz. Qui trovano alcune migliaia di prigionieri vivi, malridotti e sofferenti, assieme a molte prove degli assassini di massa compiute dai nazisti, tra i quali migliaia di abiti maschili, 800.000 abiti da donna e più di 6.000 chili di capelli.

7 settembre 1943: la famiglia Hillesum, di religione ebraica e di nazionalità olandese, – il padre Levie, la madre Riva Bernstein, il figlio minore Mischa e la figlia Etty – lascia il campo di Westerbork, dove è stata internata: direzione Auschwitz. I genitori probabilmente muoiono durante il viaggio o finiscono uccisi nelle camere a gas; Etty, 29 anni, il 30 novembre 1943; Mischa, 24 anni, il 31 marzo 1944. L’altro figlio, Jaap, non sopravvive al viaggio della morte dopo l’evacuazione di Bergen Belsen, dove è stato internato, e muore nel 1945: aveva 29 anni.

8 marzo 1941: hanno inizio i 10 quaderni/diario che racchiudono, fino al 1943, la storia di Etty Hillesum, segnata dall’incontro con lo “psicochirologo” Julius Spear, che le chiede di tenere un diario per aiutarla nel percorso terapeutico. Un testo, pubblicato nella sua versione integrale da Adelphi nel 2012, che ci permette di entrare dentro l’anima e il cuore di questa giovane donna inquieta, imparando a conoscerne i turbamenti, le paure, i dubbi, le gioie. Le sue parole ci fanno scivolare dentro la sua vita condividendone l’intimità e i pensieri e ci raccontano di una persona in ricerca dentro un mondo, un clima e un contesto storico.

Un percorso che condurrà Etty, inizialmente vittima di “una costipazione spirituale” e di un “caos interiore” che la intimorivano, entro luoghi inesplorati della propria interiorità, scoprendo in sé un pozzo vivo di speranza e un Dio che si fa, via via in modo sempre più forte, fede ed affidamento: “Non importa dove sei e che cosa stai facendo, se hai Dio in te. (…) Negli ultimi tempi, molto lentamente, sta crescendo in me una grande fiducia, una fiducia davvero grande. Un sentirsi sicuri nella tua mano, mio Dio”. Un Dio, però, da aiutare e amare, amando ed aiutando il mondo e l’umanità al punto che Etty arriverà a scegliere, volontariamente e liberamente, di seguire le sorti del proprio popolo, accompagnandolo dentro l’esperienza della prigionia e del campo, fino alla morte.

Nel 1942, lavorando come dattilografa presso una sezione del Consiglio Ebraico, Etty ebbe anche la possibilità di salvarsi dai campi di concentramento, ma decise, forte delle sue convinzioni umane e religiose, di condividere la sorte del suo popolo.

La scrittura diaristica non è materia semplice: richiede costanza, fatica e una disposizione alla verità che Etty Hillesum all’inizio fatica a realizzare: “è un momento penoso, quasi insormontabile: devo affidare il mio animo represso a uno stupido foglio di carta a righe”. Questo timore iniziale lascia spazio, nel tempo, al fluire impetuoso dei sentimenti e delle osservazioni, dentro un mondo che sta rapidamente avviandosi verso la devastazione della Shoah.

L’odio e la paura si fanno strada dentro la vita: “la barbarie nazista fa sorgere in noi un’identica barbarie che procederebbe con gli stessi metodi, se noi avessimo la possibilità di agire oggi come vorremmo. Dobbiamo respingere interiormente questa inciviltà: non possiamo coltivare in noi quell’odio perché altrimenti il mondo non uscirà di un passo dalla melma”, scrive il 15 marzo del 1941. Sono parole che prenderanno corpo in modo sempre più forte dentro l’esperienza del vivere quotidiano di Etty, favorendo in lei la volontà di una ricerca sull’umano partendo da sé stessa che si fa sempre più pressante.

“So che siamo nella morsa di un grande e minaccioso destino. (…) Le minacce e il terrore crescono di giorno in giorno. (…) Dobbiamo fare spazio a una nuova certezza: vogliono la nostra fine e il nostro annientamento, non possiamo più farci nessuna illusione al riguardo, dobbiamo accettare la realtà per continuare a vivere”.

Etty comprende ciò che accade, lo vive, lo sperimenta e ne assapora con fatica gli orizzonti possibili: la vita in un campo, l’annientamento, la morte possibile. E scrive: “la forza autentica, primaria, consiste in ciò, che se anche si soccombe miseramente, fino all’ultimo si sente che la vita è bella e ricca di significato, che si è realizzato tutto quanto in noi stessi e che la vita era buona”.

Con questo spirito, maturato entro un percorso personale profondo, Etty si prepara al proprio destino: “di minuto in minuto desideri, necessità e legami si staccano da me, sono pronta a tutto, a ogni luogo nel quale Dio mi manderà, sono pronta in ogni situazione e nella morte a testimoniare che questa vita è bella e piena di significato e che non è colpa di Dio, ma nostra, se le cose sono così come sono”.
Il 30 luglio 1942 Etty chiede di poter lavorare nel campo di concentramento di Westerbork presso la Sezione dell’assistenza sociale ai deportati.

Si tratta di un primo periodo, che poi diventa definitivo dal luglio del 1943. Prima di entrarci definitivamente consegna i propri diari ad una amica e scrive: “Ho cominciato a rileggere i miei diari e devo dire che mi sono piuttosto vergognata delle molte sciocchezze da scolaretta che ho scritto. Le volevo stracciare tutte. Ma poi ho pensato che dovei conservare i diari comunque, come tramite per entrare in contatto con la vecchia me stessa, un giorno.” Fortunatamente questi diari si sono conservati!

Nella sua vita nel campo, Etty continua a scrivere, per annotare, conservare e ricordare ed essere balsamo per le molte ferite degli uomini e delle donne del suo tempo.
Le sue ultime parole sono state ritrovate in una cartolina indirizzata ad una amica sulla linea ferroviaria che da Westerbork portava ad Auschwitz: “Abbiamo lasciato il campo cantando”.