“La felicità di questo testo non è altro che l’incontro con la perfezione del dolore; la salvezza è il battesimo verbale della disperazione”. Così Giorgio Manganelli nel lontano 1983 recensiva questa prima opera in prosa dell’immensa Alda Merini, una sorta di diario confessione, un grido liberatorio in cui la poetessa ripercorre con disarmante lucidità i dieci interminabili anni trascorsi in manicomio contro la sua volontà, attanagliata dai sensi di colpa nei confronti delle figlie lontane, dalla consapevolezza dei propri fantasmi interiori e soprattutto dalla paura della vita dopo la detenzione che l’avrebbe condannata ad un’esistenza di emarginata apolide senza alcun diritto di cittadinanza, per sempre sospesa fra “il mondo dei malati e quello dei sani”.
Negli anni precedenti all’approvazione della legge Basaglia (1978) la condizione della donna era ancora tristemente precaria, considerata poco più di un oggetto da molti mariti padroni, rischiava seriamente di essere internata con l’accusa di isteria per una banale lite domestica. Questo è ciò che accadde alla povera Alda in quel fatidico 1965, anno di inizio di un calvario disumano all’interno dell’ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano che segnò per sempre la sua già fragile psiche affetta da un disturbo bipolare diagnosticatole fin dalla prima adolescenza: “Quando venni ricoverata per la prima volta in manicomio ero poco più di una bambina…ero una sposa e una madre felice, anche se talvolta davo segni di stanchezza e mi si intorpidiva la mente. Provai a parlare di queste cose a mio marito, ma lui non fece cenno di comprenderle e così il mio esaurimento si aggravò, e morendo mia madre, alla quale io tenevo sommamente, le cose andarono di male in peggio tanto che un giorno, esasperata dall’immenso lavoro e dalla continua povertà e poi, chissà, in preda ai fumi del male, diedi in escandescenze e mio marito non trovò di meglio che chiamare un’ambulanza…Ma allora le leggi erano precise e stava di fatto che ancora nel 1965 la donna era soggetta all’uomo e che l’uomo poteva prendere delle decisioni per ciò che riguardava il suo avvenire. Fui quindi internata a mia insaputa, e io nemmeno sapevo dell’esistenza degli ospedali psichiatrici perché non li avevo mai veduti, ma quando mi ci trovai nel mezzo credo che impazzii sul momento stesso in quanto mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto molta fatica ad uscire…”
Ricordi agghiaccianti di torture e umiliazioni si susseguono in questo capolavoro di straziante umanità attraverso un terapeutico flusso di coscienza fatto di bagliori poetici, input elettrici di illuminazioni nitide, alternati a enormi “buchi neri” in cui la memoria lascia spazio a un oblio assordante: “La sera vennero abbassate le sbarre di protezione e si produsse un caos infernale. Dai miei visceri partì un urlo lancinante, una invocazione spasmodica diretta ai miei figli e mi misi a urlare e a calciare con tutta la forza che avevo dentro, con il risultato che fui legata e martellata di iniezioni calmanti. Ma, non era forse la mia una ribellione umana? Non chiedevo io di entrare nel mondo che mi apparteneva? Perché quella ribellione fu scambiata per un atto di insubordinazione? Un po’ per l’effetto delle medicine e un po’ per il grave shock che avevo subito, rimasi in istato di coma per tre giorni e avvertivo solo qualche voce, ma la paura era scomparsa e mi sentivo rassegnata alla morte.”
Eppure, anche in mezzo agli orrori di un inferno dantesco così alienante, questa grande Donna riesce a trovare una sua dimensione altra e a riscoprire una purezza primigenia con la quale preservare “lo spirito iniziale, lo spirito dell’infanzia, che non è, né potrà mai essere corrotto da alcuno”; fra sedazioni, elettroshock e disumana indifferenza, il suo disperato bisogno di amore e comprensione si trasforma in uno struggente inno alla vita di chi ha saputo trovare la forza di perdonare, di chi non si è mai arreso alla voglia di innamorarsi e ha sempre continuato a sperare in “qualcosa di bello e sensibilmente umano”: “Il demente viene considerato incapace di intendere e di volere. Eppure, sotto la diagnosi serpeggiava quieta la mia anima dolce, rasserenante, un’anima che non era stata mai tanto luminosa e vitale, e, a volte, per consolarmi, pensavo che quella brutta vestaglia azzurra fosse il saio di san Francesco e che io di proposito l’avessi scelto per umiliarmi. Così in questo modo gentile adoperai il silenzio, e mi venne fatto di incontrarvi il mio io, quell’io identico a se stesso, che non voleva, non poteva morire.[…] Tornai allora a incontrare le margheritine, le violette. Dio!, come baciai quell’erba la prima volta che la vidi! Credo che la mangiai di baci. Credo che me ne riempissi lo stomaco. Avevo fame di cose vere, naturali, primordiali; avevo fame di amore. L’avrebbero mai capito gli altri?”.
Gli altri purtroppo non lo capirono mai, perché Alda Merini quel “marchio manicomiale” tanto temuto se lo è portato addosso fino all’ultimo dei suoi giorni pagandolo a caro prezzo. Anche dopo il ritorno a casa fu costretta a veder crescere da lontano le sue amate quattro figlie affidate a famiglie adottive e ogni volta che riusciva a incontrarle cercava sempre di tutelarle dalla cattiveria della gente ricordandogli di non rivelare mai a nessuno l’identità della loro vera madre. Dopo la morte del primo marito si risposò, in barba alle solite malelingue, con il grande amore della sua vita, il medico poeta Michele Pierri, più grande di trent’anni, ma l’idillio purtroppo durò poco. Rimasta vedova una seconda volta dopo appena tre anni di matrimonio, il precario equilibrio emotivo fece ripiombare Alda nel baratro della follia, costringendola all’ennesimo ricovero. Condusse sempre un’esistenza schiva, lontana dal bel mondo dell’intellighenzia salottiera al quale si sentiva estranea; lei era “la poetessa degli emarginati” e da emarginata, nella totale indigenza, ci ha lasciati nel 2009 a causa di un male incurabile, ricordando fino alla fine con amara nostalgia quegli anni di internamento in mezzo ai malati, forse gli unici in cui l’eterna bambina dei Navigli si è sentita realmente capita: “In manicomio ero sola; per lungo tempo non parlai, convinta della mia innocenza. Ma poi scoprii che i pazzi avevano un nome, un cuore, un senso dell’amore e imparai, sì, proprio lì dentro, imparai ad amare i miei simili. E tutti dividevamo il nostro pane l’una con l’altra, con affettuosa condiscendenza, e il nostro divenne un desco famigliare. E qualcuna, la sera, arrivava a rimboccarmi le coperte e mi baciava sui corti capelli. E poi, fuori, questo bacio non l’ho preso più da nessuno, perché ero guarita.”
Grazie Alda❤️