Sono andata a vederlo, “C’è ancora domani“, per quelle immagini in bianco e nero, per quelle donne in grembiule con lo strofinaccio perennemente in mano, per i cortili enormi dove sedute sgranavano i fagioli e chiacchieravano…
Le scarpe basse, la sporta sotto il braccio, il sorriso accennato, le mani sempre composte, giunte in grembo…
Nostalgia di un tempo mai vissuto che riconoscevo.
Il film della Cortellesi mi parla della prozia Lucia, che quando le si chiedeva un parere, un consiglio, diceva sempre: “chiediamo a Rino” e poi, vedova, intercalava ogni frase con “eh, quando c’era Rino”.
Chiusa in casa, senza amiche, mai a prendere un caffè, se non dai parenti.
E Rino diventa Tino, mio nonno, che non poteva discutere di affari accanto alla sua compagna per non perdere
d’autorità di fronte agli altri uomini, salvo poi non muovere lira senza il consenso della moglie.
“C’è ancora un domani”, mi parla delle tante confidenze ricevute da mia nonna farmacista prima e durante la seconda guerra mondiale, di lividi nascosti, di botte quotidiane, sopportate senza un
lamento perché così andava il mondo.
Perché quello era il mondo! Bellezza mia!
E per una che si laureava in medicina, ce ne erano a migliaia che ringraziavano che il marito non era manesco come quello della vicina. Per un un’ingegnere, altre centinaia di migliaia sognavano le scuole medie ed altre non sognavano neppure di studiare, perché il ruolo di angelo del focolare a loro andava bene così.
La Cortellesi ci ha ricordato che non è lontano quel tempo, perché sono passati appena settant’anni dal giorno in cui le donne hanno potuto votare.

E’ un’acquerello gentile, non certo un affresco. L’opera prima di una regista che ha saputo con garbo disegnare un passato che è giusto consegnare alle nuove generazioni. Il garbo che contraddistingue la protagonista, la mano sottile che cincischia con quella busta che la postina le consegna di nascosto, carica di aspettative, diretta a lei, proprio a lei…
Un tocco di carta storico che prima conserva, poi accartoccia nel pattume e poi ripiega con cura, perde e viene due volte ritrovato; quel foglio così carico di significato, tanto quanto è vuota di senso la svolazzante busta di carta di “American Beauty“, che chissà perché me la ricorda.
E’ un film che va dritto al cuore delle donne, anche quelle con il cuore di cuoio, anche quelle che hanno Eowyn tatuata nell’anima. Perché evoca un antico profumo di conserva di pomodoro, di sbisbiglii in cucina, un’epoca in bianco e nero.
Un mondo trascorso? Non nei suoi aspetti negativi, perché di donne che si alzano a pugni in faccia è piena l’Italia, perché lo squilibrio salariale esiste ancora, perché in troppi uomini esiste un senso di sopraffazione latente che sempre più spesso non riescono a gestire e che sfocia in violenza.
E’ un film femminista? No, è una semplice, piccola, delicata pennellata di storia. Nulla toglie, nulla aggiunge. Non incita alla ribellione, non smuove le coscienze, ma richiama ad una memoria  collettiva di un passato prossimo, presente nell’intimo di ciascuno di noi.