Prevenire il suicidio è una priorità della salute pubblica.
Il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani tra i 14 e i 24 anni, mentre i gesti anticonservativi tra gli adolescenti sono una delle cause principali degli accessi ai Pronto Soccorso.
Pochi lo sanno ma dal 2003, il dieci settembre, ha periodicamente luogo la Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio. L’iniziativa, promossa dall’Associazione Internazionale per la Prevenzione del Suicidio, in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, si sviluppa con una serie di incontri e approfondimenti mirati a ridurre lo stigma, sensibilizzando organizzazioni, governi e società sul fatto che anche rispetto al suicidio sia possibile e doveroso fare prevenzione.
I dati stimano che, a livello mondiale, ogni anno più di 700.000 persone muoiano per suicidio, e che per ogni suicidio ci siano almeno di venti tentativi di suicidio. (Fonte World Health Organization).
Bisogna poi tenere conto come ogni suicidio, ma anche ogni tentativo anticonservativo, colpisca profondamente molte persone: familiari, amici, compagni di scuola e di lavoro.
Ma quali interventi, quali iniziative sono possibili su un tema traumatico che resta un tabù difficile da affrontare?
Il punto della situazione è stato fatto nel corso della Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio, avente come slogan “Creare speranza attraverso l’azione”. Un impegno che, ben oltre lo slogan, mira a stimolare e indirizzare, l’azione degli operatori e dei soggetti preposti, ad una maggiore comprensione ed efficacia con le persone a rischio.
Il suicidio è un fenomeno complesso e spesso l’atto rappresenta l’evento precipitante di una sofferenza che si è rafforzata e consolidata nel tempo.
L’obiettivo di migliorare e ampliare i servizi di prevenzione si collega ad una richiesta di maggiori fondi per rendere più efficace la valutazione e il monitoraggio delle situazioni a rischio su un bacino di persone amplio e non sempre ben definibile.
Resta in ogni caso quanto mai drammatico e sconfortante (specie per un genitore o una persona molto vicina), quando soggetti in osservazione da tempo, o comunque saltuariamente seguiti dai loro specialisti, si suicidino. Per non parlare di quelle depressioni ignorate o non capite che lasciano parenti e persone care nella disperazione.
Non sempre, anzi quasi mai, è la fame o la miseria a portare all’estremo gesto. Una fascia a rischio riguarda le prime crisi adolescenziali per le quali una prima delusione amorosa, un insuccesso scolastico o le frustrazioni legate al bullismo o alle discriminazioni sessuali possono diventare mortificazioni insostenibili.
Più avanti negli anni la propensione al suicidio si riscontra per lo più in persone che restano sole, perdendo ruoli di rilievo o gratificanti che non gli consentono più di esprimersi. Insomma persone che restano spesso legate ad un passato idealizzato, vivendo un presente visto come routine inutile e senza speranza. In fondo nessuno è più critico di noi stessi. Un fatto che può mettere in discussione nei modi più inaspettati quel fenomeno basilare di autoconservazione. Insomma è più facile che si suicidi un apparentemente tranquillissimo e riservato impiegato giapponese o norvegese, con casa, reddito o pensione, che un pescatore di Lampedusa, in un mondo di microcosmi mentali in cui è possibile perdere il senso del vivere.
Significativa in tal senso la campagna inglese di prevenzione avviata nel 2022, “The Last Photo” che mostra l’insospettabile volto della suicidità, pubblicando le ultimi immagini di persone suicide. Immagini che sfidano i preconcetti e quasi mai mostrano il volto della disperazione. Una realtà, una dimensione in cui chiedere aiuto, confidarsi, confrontarsi con qualcuno è estremamente difficile. Per questo i promotori dell’iniziativa ritengono che avviando discussioni e spirito di condivisione su questo tema tabù, liberamente e senza vergogna, si possa contribuire a rompere steccati di autoisolamento, contribuendo a salvare delle vite.
Ai dati ufficiali e alle stime degli specialisti c’è da aggiungere come siano tantissime le persone che in un momento critico (e non è detto che sia nemmeno il loro peggiore) abbiano pensato di farla finita. Per questo gli specialisti, che intervengono su questioni mentali e personali quanto mai delicate, hanno bisogno di aggiornamenti, riqualificazione, contesti operativi e servizi che non sembrano proprio favoriti dai tagli che stanno caratterizzando welfare e sanità pubblica.
Ma cosa dicono gli esperti? L’atto anticonservativo viene ritenuto come il tentativo estremo per porre fine al dolore che non si è riusciti a mitigare.
Ma cosa e come si può dar gambe al monito guida della giornata mondiale che parla di creare speranza? Per la psicologa torinese Ludovica Fiorino, da tempo impegnata sul territorio sulle tematiche di violenza e suicidio: “Creare speranza significa poter dire che esiste un’alternativa al suicidio, che è possibile alleviare il malessere. Parlare di suicidio non può più essere un tabù. Le persone si devono sentirsi libere di dire che stanno soffrendo, e devono avere la sicurezza che l’aiuto venga loro fornito con competenza e rispetto”.
L’approccio della guida Live Life (An implementation guide for suicide prevention in countries) raccomanda quattro interventi chiave che si sono rivelati efficaci:
– limitare l’accesso ai mezzi di suicidio (si pensi alle carceri).
– interagire con i media per una denuncia responsabile del suicidio (un utilizzo positivo dei media e dei social che, attraverso testimonianze , esperienze ed esperti possa dare elementi di speranza e di condivisione a chi è in difficoltà).
– favorire le abilità di vita socio-emotive negli adolescenti.
– identificare, valutare, gestire e seguire precocemente chiunque sia affetto da comportamenti suicidari.
Tutto questo è possibile grazie ad una corretta e puntuale analisi della situazione, alla collaborazione multisettoriale, alla sensibilizzazione e, ovviamente, alla particolare attenzione rivolta agli adolescenti.
Il suicidio in adolescenza è un problema rilevante di sanità pubblica. Si tratta infatti della seconda causa di morte in Italia e nel mondo e tra i giovani tra i 14 e i 24 anni. Inoltre i tentativi anticonservativi tra giovani e giovanissimi sono tra le primissime cause di accesso in Pronto Soccorso.
“L’adolescenza – precisa Fiorino – è il periodo in cui si sperimentano importanti cambiamenti nell’identità fisica, nelle funzioni cognitive e sociali. È la fase evolutiva in cui si costruisce, sé stessi, non senza difficoltà. Si devono fare i conti con l’autostima, con il bisogno, ma anche la paura, dell’apprezzamento e della considerazione dell’altro, il bisogno di sostegno e le spinte verso l’autonomia, con la sperimentazione della vergogna, dell’imbarazzo.
La società ci porta a pensare di dover apparire sempre belli, sorridenti, perfetti. E questo porta a pensare che se falliamo un obiettivo siamo dei falliti. È fondamentale invece per crescere bene, sapere che il fallimento fa parte del normale percorso di crescita, di vita, di ciascuno di noi. Fallire significa non essere riusciti a raggiungere quel determinato obiettivo che ci eravamo preposti, non significa che non siamo in grado di farlo, che non abbiamo le capacità di farlo.
Creare un’ideale di perfezione è deleterio. Chi non si sente perfetto, e nessuno lo è, non si sente all’altezza, degno dell’affetto e della considerazione degli altri, cose di cui ha estremamente bisogno.
Ne è un esempio il rapporto con il dolore in cui spesso si va da un estremo all’altro: la negazione del dolore, non posso o non voglio provare dolore, o l’esasperazione del dolore, attraverso ad esempio l’urlo silente della chiusura, dell’autolesionismo. Nel mio lavoro con gli adolescenti ho la percezione del fatto che molti si vergognano nel dire che soffrono, che stanno male per qualcosa perché hanno paura del giudizio degli altri, di essere considerati dei deboli, chiedono scusa se si mettono a piangere mentre raccontano la loro sofferenza.
Vorrebbero non soffrire, chiedono come poter superare il dolore.
Ma il dolore non si supera, si elabora. Si impara a vivere con quel dolore, che fa parte di noi e piano piano trova spazio dentro di noi, uno spazio che esiste, di cui dobbiamo essere consapevoli; ma deve “trovare il suo posto”, affinché non ci pervada più come all’inizio, non provochi più angoscia e smarrimento e quell’isolamento causato e ampliato dal dilagare dei rapporti virtuali”.
La psicologa in conclusione affronta le specificità e i drammatici effetti del rapporto con il mondo social. Quel mondo di relazioni virtuali in cui specie gli adolescenti sono spesso immersi.
“Le relazioni sempre più virtuali e meno “de visu” non ci permettono di vedere realmente l’altro: se io offendo qualcuno che ho davanti posso vedere nei suoi occhi, nella sua espressione facciale il dolore che le ho procurato e ciò mi permette di sviluppare empatia, di rendermi conto nell’ immediato di quello che sta succedendo, di quali conseguenze ha avuto il mio gesto e le mie parole. Mi permette insomma di sentire l’altro. Tutto questo non è possibile con le relazioni virtuali.
Vedere e sentire l’altro mi permette anche di porre rimedio nel qui e ora. Nelle relazioni virtuali dopo un litigio io posso bloccare l’altro, non avere più nulla a che fare con l’altro, non sapere più nulla dell’altro. Non esiste più. Lo stesso può valere anche per me: anch’io posso non esistere più e questo pensiero è terribile”.
A questo si aggiungono drammi e suicidi legati all’odioso fenomeno del revenge porn che continua a colpire e portare alla disperazione specie giovani vittime preda della vergogna, in contesti caratterizzati da scimmiottamenti machisti, iper possessività, intolleranza, bullismo violento, che trovano sponda in modelli mafiosi e prevaricatori.
Il pensiero del suicidio resta un tabù in un mondo dominato da influencer e affaristi senza scrupoli ma è una realtà e un rischio presente in troppe persone fragili e non solo. Molte di più di quello che si possa pensare.