Sull’onda anche emotiva dei recenti suicidi di due donne nel carcere delle Vallette di Torino (una delle due recluse si è lasciata morire rifiutando cibo, acqua e cure e chiedendo insistentemente del figlio) e quello di un uomo nel penitenziario di Rossano Calabro, dopo la visita del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, proprio a Torino, è quanto mai di scottante attualità l’intervista ad una operatrice ACLI, di nome Aurora.
– Può spiegare in poche parole l’attività della sua associazione rispetto agli istituti di pena?
“ACLI lavora da più di 15 anni nella Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, le Vallette, per aiutare i detenuti ad avere accesso ad alcuni diritti che spettano loro, ma che non sarebbero in grado esercitare facilmente. Si tratta di pratiche di supporto al reddito (ad esempio: invalidità, assegno unico, assegno sociale), ISEE e, da quest’anno, anche le domande per le case popolari. In questo momento ACLI è una delle associazioni che fanno parte dello Sportello Dimittendi, un progetto rivolto appunto ai dimittendi (detenuti che hanno una pena residua di due anni), con capofila il Comune di Torino, e che mette insieme varie realtà di terzo settore che lavorano nel sistema carcerario”.
– A quali valori vi ispirate?
“A quello dell’uguaglianza sostanziale. Se una persona ha un diritto, deve essere messo in condizione di poterlo esercitare ovunque si trovi all’interno della società. A maggior ragione se si trova in una situazione di fragilità, anche se temporanea. Il fatto di aver commesso un reato ed essere in carcere non dovrebbe cambiare questa condizione, che sta alla base della nostra democrazia. Inoltre, il valore della solidarietà e comunità: quando il sistema presenta un limite, cercare di colmarlo con i mezzi a disposizione, facendo rete e lavorando insieme per trovare un modo perché funzioni a lungo termine, coinvolgendo gli enti di competenza”.
– Quali azioni ponete in essere in ambito carcerario?
“Ci occupiamo di informare i detenuti riguardo i loro diritti in ambito assistenziale, aiutarli nella compilazione delle pratiche (ad esempio, quelle delle case popolari) e a recuperare i documenti necessari, cosa non scontata, visto che spesso i detenuti non hanno accesso ai propri documenti d’identità e non hanno persone su cui contare. Se si tratta, nello specifico, di pratiche di CAF e Patronato, allora ci occupiamo anche di elaborarle”.
– Cos’è per voi pena detentiva?
“Un’occasione sprecata per la riabilitazione del condannato nei confronti la società, ma soprattutto della propria vita. Il tempo passato in carcere è visto sin troppo dal solo punto di vista della punizione (che non significa vendetta eliminando la dignità della persona, ma semplicemente temporaneo allontanamento dalla società attraverso la reclusione in un istituto di pena) e troppo poco come un’occasione per investire nella “rieducazione” e reinserimento funzionale del detenuto nella società”.
– Quali sono le azioni che ponete in essere per attuare i vostri obiettivi?
“Partiamo dai colloqui con i detenuti per capire i loro bisogni e come procedere. La parte più importante è il coordinamento all’interno del carcere: con uffici per recuperare documentazioni, informazioni, capire a rivolgersi. Il carcere ha delle regole e degli equilibri a volte complicati e per questo è importante fare rete con volontari, educatori, operatori e agenti. A volte andiamo anche oltre, chiamando famigliari e avvocati dei detenuti per farci aiutare con la documentazione”.
– Quali bisogni soddisfa la vostra attività?
“Aumentare la consapevolezza dei loro diritti e doveri sia all’interno dell’istituto penitenziario sia per poter ripartire e reinserirsi più serenamente nella società, una volta fuori dal carcere, fornire informazioni concrete sui temi casa, lavoro, welfare e, quindi, accompagnarli nell’ottenimento delle prestazioni di welfare a cui hanno diritto”.
– Il percorso di inserimento inizia già dentro le carceri?
“A volte. Alcuni detenuti con caratteristiche specifiche (spesso in condizioni di maggiori fragilità) sono seguiti da vari enti già dentro il carcere. Alcuni non sanno a chi rivolgersi e di fatto non fanno un vero e proprio percorso. Spesso non basta. Il lavoro degli enti di terzo settori, dei volontari, della garante dei detenuti, dei medici, degli operatori, degli educatori e in generale dell’istituto penitenziario è fondamentale, ma c’è bisogno di investire maggiormente nel sistema penitenziario: sistematizzare le azioni, i servizi, il coordinamento e ci vuole più attenzione non solo per i soggetti fragili, ma anche per i “detenuti comuni”, che spesso sono un po’ abbandonati a se stessi. Fornire luoghi dove poter abitare dignitosamente una volta usciti (in tempi sensati), accompagnare i detenuti nella ricerca del lavoro e fare formazione teorica e pratica durante il periodo della detenzione, fornire stimoli diversi e attività durante la detenzione (corsi di ogni genere, gruppi di supporto…) sono cose che stanno alla base del recupero del condannato e della minimizzazione della recidiva. Se fuori uno si trova senza lavoro, persone o enti su cui contare, senza soldi e senza una casa sarà necessariamente più portato a delinquere nuovamente. Per questo è necessaria una sensibilizzazione della comunità verso questi temi, un’interesse verso il carcere non come luogo in cui cercare vendetta, non un luogo marginalizzato, escluso e di cui avere paura o disprezzo, ma luogo di cui avere cura, perchè è un investimento sul futuro del singolo, ma soprattutto di tutta la comunità”.