La sua corsa ai Mondiali Paralimpici di atletica leggera è stata liberatoria. Un bronzo mondiale per entrare direttamente nella storia dello sport italiano. Valentina Petrillo, 49 anni, è nata a Napoli, ma dal 1994 abita a Bologna, dove lavora come programmatrice informatica. Ipovedente (a causa della Sindrome di Stargardt, la forma più comune di degenerazione maculare ereditaria, che la colpì durante l’adolescenza), specialista della distanza dei 400 metri, Valentina ha dovuto vincere molte “gare” ancor prima di scendere in pista. Perché Valentina Petrillo è un’atleta transgender (fino al 2018 aveva mantenuto all’anagrafe il nome Fabrizio) e, l’anno prossimo, a Parigi 2024, potrebbe essere la prima transgender azzurra ai Giochi Paralimpici.
Dopo la medaglia di bronzo, doverose e sentite le dediche familiari: “A mio papà Edoardo, che è a casa e mi segue con tanto amore. E in particolare al mio piccolo Lorenzo. Amore, ha visto che papi ce l’ha fatta e ha portato a casa la medaglia? Spero che tu sia orgoglioso di me, anche se hai un papà trans”.
In vistoso contrasto con l’entusiasmo nazional-popolare nei confronti del terzetto della velocità paralimpica (Ambra Sabatini, Martina Caironi e Monica Contrafatto), capace di vincere oro, argento e bronzo nei 100 metri ai Mondiali Paralimpici, il risultato di Valentina Petrillo è stato accolto con il solito scherno (se non, astio) da parte di buona parte dei media e, ancora peggio, dei social, con commenti troppo spesso inqualificabili da parte dei “leoni da tastiera”.
Valentina Petrillo, però, sembra avere le spalle forti. “Non dobbiamo vergognarci di quello che siamo, anche se il mondo non ci vede conformi. Dobbiamo essere fiere di noi stesse. Se ce l’ha fatta Valentina – aggiunge quasi in terza persona – ce la possono fare tutti. Lasciateci correre in pace”.