Per i femminicidi i dati restano allarmanti. Da inizio anno all’11 giugno si contano 147 omicidi, 54 vittime sono donne, di cui 43 sono state uccise in ambito familiare/affettivo e tra queste 25 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner. Questo è quanto emerge nell’ultimo report del Dipartimento del Ministero degli interni.  Purtroppo i dati sono già superati da una cronaca che quotidianamente registra nuove donne uccise in contesti anche giovanissimi. Come quello della diciassettenne Michelle Causo ritrovata in un carrello della spesa a Primavalle.
Tra le vittime di femminicidio Giulia Tramontano, incinta al settimo mese, assassinata dal compagno, padre del bambino. Un caso che ha scosso l’opinione pubblica, sia per la brutalità con la quale è stata uccisa (una serie infinita di coltellate), sia perché la vittima aveva cercato di affrontare il suo compagno, prima di lasciarlo, comunicandolo anche ai familiari.
“Se nel 2023 ci sono ancora persone convinte di avere il diritto di possedere un’altra persona, convinte che uccidere possa essere la soluzione alla fine di una relazione, che sia un diritto quello di volgere sguardi o parole offensive a qualcuno, allora come società abbiamo miseramente fallito”. E’ il parere della psicologa torinese Ludovica Fiorino, responsabile dell’Osservatorio violenza e suicidi Piemonte, che precisa:
“Nessuno dovrebbe sentirsi escluso da questo fallimento perché si stima che ogni giorno una donna su due sia vittima di violenza e questo dovrebbe essere francamente inaccettabile. Nonostante leggi ad hoc, come il codice rosso, (in vigore da agosto 2019), che introduce nuovi reati, inasprisce le sanzioni di quelli già in essere, con una procedura apposita per tutelare chi si trova in situazioni a rischio. Nonostante ci sia una maggiore e capillare informazione su come fare se ci si sente in pericolo”.

Insomma, nonostante tutto, ci sono ancora troppe donne che non possono andarsene. Un fenomeno che la psicologa collega al fatto che, troppo spesso, la cultura in cui si cresce è di tipo patriarcale, misogina.  O per il timore, di molte donne che hanno dei figli, di poterli perdere o di doverli sradicare dalla loro vita attuale.  “Non possono perché temono il giudizio della società in cui vivono, gli sguardi giudicanti. Non possono perché magari non sono economicamente indipendenti. Non riescono ad andare via perché hanno paura”.
Inoltre i tempi burocratici per allontanare le vittime sono ancora troppo lunghi con passaggi ancora troppo macchinosi. Le strutture di accoglienza ancora troppo poche. I fondi per le associazioni che di tutela si occupano, troppo pochi.
Ma non c’è solo questo.
“Se non si agisce profondamente e radicalmente dal punto di vista sociale e culturale continueremo a piangere altre vittime” è il monito di Fiorino che aggiunge: “Se non educhiamo bambini/e, ragazzi/e, al vero rispetto dell’altro, non tollerando che possano essere considerati gesti innocenti il rivolgere appellativi volgari, toccare il fondoschiena, vantarsi delle conquiste sessuali; se non ci rendiamo conto che la dipendenza affettiva è un vero e proprio problema; se non abbiamo contezza del fatto che ci sono ancora adolescenti e giovani ragazze che si sentono in dovere di concedersi sessualmente perché quello viene richiesto come dimostrazione d’amore, sarà davvero difficile riuscire a cambiare davvero qualcosa. Perché fino ad ora ci si rivolge troppo spesso solo alle donne per dire loro cosa possono fare se sono vittime di violenza, per metterle al corrente dei propri diritti, ma non ci si rivolge direttamente ai bambini e ai ragazzi, agli uomini”. Un discorso che vede fondamentale, per tutelare tutti/e, l’educazione di una cultura non maschilista, attraverso comportamenti concreti, leggi adeguate, parità economica e ruoli lavorativi e sociali paritari. L’unica via per rendere davvero possibile affermare che non esiste la presunta superiorità dell’uomo sulla donna.

Il braccialetto non è l’unico modo per tutelare le donne.
I diversi progetti pilota messi in atto in modo non strutturale e limitato, troppo legato alle sensibilità di certi contesti sul territorio, hanno per esempio portato alcune donne oggetto di minacce a indossare, con il loro consenso, degli smartwatch di sicurezza (mobile angel). Una forma di controllo che alcune donne vedono sì come una tutela certa ma anche come una non piacevole e invasiva forma di controllo continuo sulla loro vita privata.
Infatti si tratta di un sistema talmente raffinato che, anche nel caso in cui la vittima fosse stata immobilizzata, consente di rilevare improvvise accelerazioni del battito cardiaco o strattonamenti che determinano un collegamento immediato con la centrale operativa delle forze dell’ordine. Il sofisticato sistema in caso di pericolo non solo consente una localizzazione della vittima ma attiva anche un registratore e un sistema video inserito nell’orologio. Fornendo prove inoppugnabili in ambito giudiziario.
Uno strumento forse efficace ma agghiacciante in quanto vede la donna come una preda sempre rischio aggressioni e violenze, ben lontano da quei discorsi di piena libertà per tutte. Certo ben venga qualcosa a salvaguardarci, ma le donne non dovrebbero andare in giro come dei cani con il collare. Non penso sia l’unico modo per tutelare le donne. Sono strumenti che non spingono verso quell’educazione dei maschi, fin da giovanissimi, che ritengo un fattore chiave”.  E’ l’eloquente e amara conclusione della psicologa torinese.