Piccolo è bello si diceva un tempo. Ma oggi piccolo spesso significa essere fagocitati o soffocati dai costi, anche se sei bello. Non stiamo parlando di imprese comuni ma di piccole cooperative sociali che si occupano di disagio mentale. Realtà che operano in quel contesto dei malati psichiatrici quanto mai ampio in cui si va dalle crisi di ansia, agli attacchi di panico alla depressione, per poi arrivare a casi più complessi.
Una realtà silenziosa ma con numeri di rilievo.
In Piemonte si contano 1800 cooperative sociali, con un fatturato complessivo introno ai 15 miliardi di euro, che si occupano in buona parte di disagio mentale. Questo mondo, che dovrebbe essere protetto e al di fuori dei selvaggi schemi competitivi, è spesso terreno fertile per interessi molto lontani da quelli per cui si è costituito.
Si tratta di scontri, o più finemente di assestamenti del comparto, in cui la persona con disagi mentali può risultare contesa come fonte di reddito. Il punto dolente è che quando prevalgono criteri di mero profitto si registrano tagli su tutti quei servizi (vitto, presenza di operatori specializzati, partecipazione a momenti ludico culturali), che sarebbero basilari per il benessere e il reintegro dell’ospite.
Oggi questo fiore all’occhiello rappresentato dalle piccole comunità (otto-dieci ospiti sono ottimali per la gestione di queste problematiche), con comprovate efficienza, esperienza, umanità e professionalità, risulta poco protetto da organismi che dovrebbero invece garantire pari diritti. Strutture che ora rischiano di chiudere, per fragilità economiche o per essere assorbite da soggetti più grandi. Questo per soddisfare interessi diversi, rompendo, spesso violentemente, percorsi educativi e di supporto, anche decennali, che lasciano i pazienti in situazioni di smarrimento insieme ai loro operatori destinati ad ingrossare le fila dei disoccupati. È da sottolineare come l’affrontare e il gestire il disagio mentale implichi un impegno notevole e specialistico da parte degli operatori coinvolti, ben oltre un mero approccio gestionale che assicuri l’ordinaria convivenza nella singola struttura assistenziale. Insomma uno sforzo rilevante per chi lavora combattendo lo stigma e per i familiari coinvolti. Strutture in cui tra l’altro sono sempre più numerosi i malati soli e senza l’appoggio dei parenti.
Purtroppo sulla malattia e il disagio psichico si è nel tempo istituito una sorta di sistema finanziario industriale, e i numeri del fatturato spiegano molte cose.
Questo in una fase in cui si è ormai da tempo superato quel periodo pioneristico legato alla chiusura dei manicomi.
Per aiutarci a comprendere come un settore solidaristico, etico, umanitario, si possano scatenare appetiti insani, bisogna capire che ogni singolo paziente seguito è, per gli enti gestori di terzo settore, la principale voce di fatturato e quindi di redditività.  Una redditività ovviamente condizionata dal livello del costo del personale (che incide in media per il 70% sui costi generali) e dalle spese per locazioni, mensa, ospiti, progetti educativi e ludici, oltre alle ordinarie spese gestionali.
Il fatturato, per chi opera in questo settore, è sempre certo perché frutto di accordi tra le parti (Asl, Comuni, consorzi, quali enti inserenti ed organizzazioni datoriali di terzo settore in rappresentanza delle cooperative iscritte. Un quadro che solitamente prevede un margine di redditività intorno al 7%, sempre che il personale sia ovviamente retribuito ai sensi del vigente contratto collettivo nazionale di categoria.
Un margine operativo che ovviamente è possibile incrementare riducendo le voci correnti di spesa. Il nuovo trend, di un settore in cui le dinamiche solidaristico dovrebbero essere basilari, vede imporsi risparmi e tagli generalizzati: vitto, attività educative risocializzanti, manutenzioni, pulizia e, soprattutto, su un fattore fondamentale come quello del personale. Un quadro che vede ovviamente penalizzati i silenti pazienti che, in qualche caso, iniziano a lamentare situazioni di disagio e insoddisfazione in una realtà che dovrebbe essere solo finalizzata al loro benessere e al loro recupero in senso complessivo.
Nel mondo della cooperazione sociale esiste un contratto collettivo nazionale di categoria per lavoratrici e lavoratori. Il contratto, rivisitato nel 2019, reca le firme delle organizzazioni sindacali CGIL, CISL, UIL e dei rappresentanti delle organizzazioni datoriali tra cui LEGACOOP, CONFCOOPERATIVE e AGCI.
Oltre al contratto nazionale di categoria esistono, per motivi non chiarissimi, altri tipi di contratti che prevederebbero un unico contratto, usufruibile dai propri associati, che consente di pagare meno un operatore con eguali mansioni, rispetto a quanto previsto dal contratto collettivo nazionale di categoria.
Parlando con gli operatori del settore pare che vi siano anche altri escamotage per abbassare ulteriormente il costo del lavoro (la voce più rilevante). Si tratta di assunzioni con livelli e mansioni non consoni, contratti a progetto, a fattura e quant’altro.
I più arditi riescono anche a fissare (o imporre) accordi con altre cooperative, spesso piccole e prive dei requisiti per poter operare autonomamente loro malgrado, demandando mansioni educative ed assistenziali anche a fronte di riconoscimenti orari più bassi dei minimi contrattuali, cui viene spesso affiancata la promessa di adeguamenti “non appena si creino le condizioni”. Personale che rischia di venir scaricato anche brutalmente quando prova a porre la questione o fa notare al committente (o ai servizi invianti che pagano le rette al committente) gli evidenti disservizi a carico dei pazienti.
Accade anche che si favorisca l’incorporazione delle piccole realtà in difficoltà che lavorano in proprio, non supportandole e ingegnandosi per assorbire i pazienti inseriti in queste strutture, facendo così magicamente crescere il proprio fatturato.
Di queste piccole cooperative (le più efficaci, come detto nel gestire comunità con ospiti con disagio mentale) il mantenimento di questi fattori di professionalità, esperienza, i legami creati con i pazienti sviluppati nel tempo non pare conti molto a nessuno. Si aprono invece le tristi porte delle liquidazioni coatte amministrative che lasciano sempre sul campo qualche debito, qualche esposizione bancaria, mentre il personale (tanti gli over 50) prova con difficoltà a rientrare nel calderone di sempre più labili garanzie occupazionali. Uno scenario che può compromettere anni di lavoro e di preziosa esperienza con i pazienti, dei quali pare esserci davvero poco rispetto ed interesse se non per “quanto vale al giorno la sua retta”.
Le centrali cooperative dovrebbero garantire ai propri iscritti, siano essi piccoli, medi o grandi, una protezione da questo tipo di rischi. Anche perché ricevono annualmente una quota di iscrizione dalle società aderenti che dovrebbe servire a pagare gli aspetti organizzativi a garantire i servizi necessari. Se quello più grosso paga di più, non dovrebbe avere comunque più diritti del più piccolo perché è un meccanismo di sola proporzionalità e non di peso finanziario.
E’ triste constatare come in taluni casi nemmeno il sindacato di adesione sembri interessarsi particolarmente a questi lavoratori che rischiano il posto per motivazioni spesso inesistenti. Piccole gocce nel mare magnum delle crisi e delle vertenze occupazionali in essere. Vero, ma per questi lavoratori, come detto spesso over 50, le prospettive siano tutt’altro che rosee.
Ricordiamo che qui si parla di “cooperative sociali a mutualità prevalente e di diritto”, dove per mutualità si intende quella verso i propri associati nell’offrire loro opportunità di lavoro e crescita, anche se il quadro generale sembra raccontare tutt’altro.
Su questa girandola di interessi, dai numeri rilevanti, si stanno affacciando investitori, immobiliaristi che forniscono strutture e finanziatori più o meno occulti. Ci sono troppi interessi su questa realtà impegnata a curare chi soffre e chi con loro lavora.

A questo si aggiunge la cronica carenza di educatori professionali ed operatori socio assistenziali. Figure previste dalle direttive regionali per operare presso questo tipo di servizi.
Le motivazioni di questa carenza, incredibile in un paese pieno di disoccupati, sono riscontrabili in questa fotografia: oggi per diventare educatrice/educatore professionale bisogna frequentare un corso di laurea triennale, con aspettativa retributiva che raramente supera i 1.200 euro mensili per un tempo pieno alla faccia dei contratti.
Anche per gli operatori socio assistenziali, il corso è triennale e prevede un tirocinio. Si può quindi accedere con il solo diploma di scuola dell’obbligo, con ovviamente attese retributive più basse.
Nel frattempo schiere di psicologi bussano alle porte, in attesa di una parificazione agli educatori, in quanto molto più numerosi e preparati, inoltre per psicologia non esiste numero chiuso.
La Regione Piemonte è arrivata tardi nell’organizzare la formazione necessaria di educatrici ed educatori professionale che, sino a qualche anno, necessitava di un curriculum lavorativo nel settore e della frequenza di un corso triennale sponsorizzato dagli enti pubblici stessi.
Un ritardo legato al fatto che, ad un certo punto, ha dovuto adeguarsi alla normativa nazionale, secondo cui si diventa educatori professionale solo a fronte del predetto corso di laurea triennale che è oltretutto a numero chiuso.
Un quadro che è alla base di quella carenza di personale che non consente di coprire il fabbisogno di questi profili professionali nel rispetto delle normative per gli enti gestori.
Insomma il trend in essere mostra un vergognoso gioco al ribasso che purtroppo orienta le preziose rette degli ospiti verso gli affaristi del disagio. Questo facendo spezzatino di tutta la professionalità e dedizione che, nonostante tutto, si trova ancora nel settore e quasi sempre nelle piccole realtà cooperative storiche.
Strutture che non si allineano al nuovo corso di riforma di un servizio psichiatrico, mal gestito, che pare tendere sempre più alla manicomialità portata dall’equazione “più pazienti e retta meno cara”. Un parametro che rende aria fritta i bei propositi di reinserimento e di impegno sociale che vengono decantati in ogni convegno su questo tema.
In calo i fondi per la salute mentale.
Che la salute mentale resti un fanalino di coda nei programmi di spesa viene confermato da quanto emerge nei piani di utilizzo delle sostanziose risorse destinate dal PNRR alla Missione Salute. Un’area che, secondo alcune critiche, sarebbe erroneamente ritenuta già autosufficiente, ignorando tutte le specifiche problematiche emergenti e gli ammodernamenti e interventi necessari per questo comparto. Questa preoccupante tendenza è confermata da dati che vendono la spesa nazionale per la Salute Mentale attestarsi negli anni dal 2015 al 2018 intorno al 3,5% – 3,6% del Fondo Sanitario Nazionale (FSN). Mentre nel 2019 si è registrato un calo al 2,98%. Un dato sotto il 3% che permane con una parallela contrazione anche nelle Regioni e PP.AA.
I dati del Ministero della Salute prima dello scoppio della pandemia vedevano i fondi per la salute mentale scendere a 639.862.000, nonostante l’incremento sostanzioso di ben un miliardo di euro del FSN. Nel 2020 la spesa registra un lieve aumento (70 Mln €) ma continua ad attestarsi al di sotto del 3% del FSN.
Gli interventi straordinari adottati dal Governo per fronteggiare il Covid non hanno quindi sostanzialmente modificato il sottofinanziamento del settore SM e la situazione risulta peggiorata, con notevoli differenze persistenti a livello regionale.
Un quadro nettamente inferiore rispetto a quanto si spende per la sanità mentale nel resto d’Europa nonostante il nostro Paese sia considerato una realtà all’avanguardia nello studio e nella sperimentazione in questo comparto.

Anno Tot Fondo Indistinto FSN[1] Spesa Salute Mentale[2] Spesa Salute Mentale / FSN (%)

2015 107.032.486.290  3.739.512.000 3,49%

2016 108.198.967.678  3.824.693.000 3,53%

2017 108.948.660.735  3.954.097.000 3,63%

2018 109.876.848.907  3.956.194.000 3,60%

2019 111.079.467.550  3.316.332.000 2,98%

2020 113.257.674.550  3.386.704.000 2,99%

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