Ernesto che faceva le case (Pendragon 2021) è il primo romanzo di Eugenio Sideri, drammaturgo, regista e fondatore della compagnia Lady Godiva Teatro. Più generazioni, riunite in un vincolo familiare, come radici di un grande albero, resistono alle intemperie della storia. Ambientato nelle campagne ravennati, si snoda dalla fine dell’Ottocento al secondo dopoguerra. Il protagonista, il signor Ernesto, narra ai nipoti e agli amici intorno al vecchio tavolo, una vicenda umana e familiare a cavallo delle due guerre.  In realtà si avverte la presenza di più i narratori: uno interno, che siede a quello stesso tavolo, osserva e partecipa alla vicenda e il protagonista Ernesto, che faceva le case. Quest’ultimo come Padron’ Ntoni, il patriarca della famiglia Malavoglia, è fedele alla sua terra ricca di tradizioni, non ama essere contradetto e utilizza espressioni dialettali per sottolineare meglio il suo pensiero. Infatti, la grammatica, appresa dalla maestra, non ha la stessa forza espressiva del parlato. L’eredità che vuole trasmettere ai giovani non sono averi o mattoni, ma libertà, giustizia e solidarietà. Poche cose, solide come le fondamenta delle case di una volta e indiscutibili come le parole di suo padre. Il romanzo di Sideri può definirsi, a mio avviso, corale in quanto, oltre alla famiglia Fabbri, con tutte le sue numerose diramazioni, esiste la gente del paese. I preti, le maestre, i vicini. Alcuni sono amici, altri, spinti dalla bramosia del potere e dall’ambizione, tradiscono le proprie origini scegliendo di stare dalla parte della violenza. Ernesto, che costruisce le case, racconta anche il tradimento e la morte, in modo lucido senza usare parole di odio. Piuttosto si avverte pietà verso chi ha preferito “sopravvivere nel Partito Fascista”.   Grande protagonista è il paesaggio esterno e interno: la casa, sempre aperta, e la Romagna dei mezzadri e dei braccianti. I luoghi, solo vagamente tratteggiati con rapide pennellate, diventano spazio della memoria. Non esiste ricordo infatti che non sia inserito in un contesto: l’abitazione, il cortile, la cantina, l’osteria. In controluce poi ci sono le storie personali, i drammi quotidiani e il difficile passaggio tra due secoli: l’Ottocento, ormai agonizzante, e il Novecento. La Storia, non può essere solo macerie. Deve essere per forza rinascita e ricostruzione. Pertanto, quando viene a mancare la speranza e la follia regna, l’unico baluardo di salvezza, come ci insegnano i nostri nonni, è arrotolarsi le maniche di camicia e lavorare con impegno. Solo seguendo l’esempio dei padri i figli progrediscono e quel piccolo mondo antico, iniziato da Libero ed Edera, sopravvive costruendo case, coltivando campi, impastando farina. Eugenio Sideri scrive di gente coraggiosa e tenace pronta a difendere il  nido contro la tempesta. Ernesto che faceva le case è una saga familiare dal tono epico. L’autore, non a caso infatti, riprendendo l’epiteto accostato al nome proprio, rimarca l’ostinata determinazione di Ernesto e dei suoi avi. Il verbo “fare” ci ancora alla realtà; solo l’azione, ci spinge ad andare avanti anche quando vorremmo scendere dalla giostra. E, la scelta linguistica vicina al parlato, con inserti dialettali, rende perfettamente il carattere ruvido della campagna ravennate. Attraversando, così, in modo semplice, il Novecento l’autore riprende un genere complesso, sospeso tra il romanzo storico e la letteratura regionale. Se in certi passaggi ricorda la nostalgia del tempo che fu e dell’infanzia di Otel Bruni di Valerio Massimo Manfredi, per la scelta di utilizzare una lingua ibrida richiama Canale Mussolini. Eppure, in alcuni passaggi, dove la solidarietà combatte l’arroganza, mi ha riportato alle pagine di Fontamara di Silone o a Novecento di Bertolucci. Se il senso comune storiografico ci spinge a considerare i fatti come un continuum, la microstoria, invece, partendo dal piccolo, ricostruisce gli spazi sociali, i rapporti di forza e le problematiche locali in rapporto ai grandi eventi. Ecco, Eugenio Sideri, nel suo frammento di storia romagnola, è riuscito a trasformare un romanzo in documento, fotogramma in bianco e nero di una terra così lontana e così vicina al mare, dove il Socialismo ha messo radici insieme al pensiero repubblicano e mazziniano.